martedì 3 settembre 2013

Racconto di una giraffa mistica





“Perché non siamo fatti della stessa materia del congedo”- Heidegger


Caduta, ancora una volta, oh non guardarmi così!- parole come crepe sul fondo- insetti striscianti come ultimi singhiozzi morenti.
Lui arrivò così, dal nulla, come soffiano certi venti all'improvviso- in mezzo alla strada, in mezzo alla vita- venne e non lo vidi arrivare. Venne e non se ne andò più, se non con me, lungo strade-cantieri-parchi-buio-solletico-grida-neve-foto-silenzi-versi-dimenticanze.Venne per accogliere farfugliamenti e perdizione.
Senza lacrime sul suo pavimento piansi le paure più segrete- oh quale silenzio nel  suo stringermi la testa, come a voler sentire di più, sempre di più. Mi raccolse ai lati della strada ubriaca, chiuse i sui confini al mondo per me e ne creò uno più immenso. Fu il corpo folle nella sua inflessibile ragionevolezza sul quale scaricai impulsi elettrici per curarmi, oppure fu solo il modo che quelli come me hanno per dire “amore”.
Mi stupivo come d'improvviso ci trovavamo insieme, seduti da qualche parte, cani-polline-urla di bambini-bici-caffè-fogli-caramelle-semaforo rosso- e lui c'era, spontaneo come la mia solitudine, senza trambusto entrava ed usciva in me, come il sole nel cielo- e chi può dire se il sole appartiene al cielo oppure il cielo al sole o si appartengono e basta- non sapere non era una colpa con lui.
Si arrabbiò con le sillabe- pensieri dal fondo del pozzo- della mia bocca sincera e incapace. Si nascose dietro nuvole di fumo, poi concentrando occhi e mani (senza sforzo) sul destino, ritornò. Il mio muso prepotente e confuso, il suo naso rigido e delicato, si fondevano a volte, formando il viso perfetto.
Gli feci la barba, mi asciugò le lacrime, lo curai da malato, mi preparò il caffè, lo odiai, mi odiò, cucinò due uova per saziare la mia fame, lo guardai negli occhi per saziare la sua, ma chissà se capì che fui io ad esserne più felice.
Musica di luna- musica al mattino a piedi scalzi- musica a notte fonda sussurrata e goffa- musica d'incontro- musica di distanza-musica di campane nelle ore troppo frettolose- musica stonata in mezzo a strade desolate. Nessuno scrisse mai una nota su carta, ma di tutta questa storia, non si può ricordare altro che una sinfonia perenne che sale al parco la sera, mentre tutto si svuota e il cielo respira liberamente stringendo al petto campanili e alberi.
Lo incontrai come s'incontra uno sconosciuto, era solo una lettera, G. Lo conobbi come si conosce la verità, con timore, silenzi, nostalgia, stupore, crudeltà. Lo dimenticai ogni volta come si può dimenticare l'Essenza.
Dormì fuori dalla mia porta, io aspettai l'alba furiosa, rubò la luna alla mia finestra, gli regalai anche quella, con l'indice svolazzante ed incerto- sul suo profilo, quante notti a non toccare terra!Mi portò dentro il ventre della balena. Si coalizzò con la mia pancia. Mi regalò una giraffa mistica. La chiamai Olanda.
Seduti dentro la bocca di un angelo, con la lingua a toccar terra, mi guardò con disprezzo, mi morsi il labbro e i venti si fecero folli e freddi sotto la pelle, erbacce s'aggrapparono alla lingua e un'immobilità mortale mi prese. Quale malvagità può compiere un bambino se non ripetere ancora la verità?!
“Ma ti amo...”- dissi
“Oh, qualcosa si è rotto da quando hai distrutto la sacralità dei nostri luoghi”
Ho profanato i tuoi luoghi sacri? Oh, deridimi e scomunicami! Vivrò ricostruendo su fogli, templi da regalare a te e a me- insieme- finché non riempiremo le dita l'uno dell'altra, e sarà una nuova epifania.
Inorridisce ai miei silenzi.
“Io soffro”- grida come un bambino orgoglioso e triste, senza accorgersi della mia angoscia, spinta ad una ignota ricerca, ad un luogo senza luogo. Correre per non arrivare. Come l'acqua del fiume che scorre, solitaria, e non può fermarsi, si ribella a volte, attacca le sponde, s'aggrappa agli argini, solo per godersi un'alba nell'immobilità che ama, ma poi sfinita, s'abbandona al destino e scorre...e  lui è il letto del fiume- ancora triste- chissà se comprende?!
“Verrà il tempo per noi”- disse, mentre una giraffa s'aggirava triste in mezzo alle strade vuote della metropoli.
Non fu mai addio, giacché risveglio dopo risveglio, siamo ancora seduti qui, sulla lingua dell'angelo, finché non sarà di nuovo, il nostro tempo per camminare.

mercoledì 28 agosto 2013

Bellezza, rivoluzioni, panino al prosciutto.




                           

L'indicibile ha una voce potente.Dì l'indicibile...L'indicibile non riesce a passare dentro un tunnel dalla gola squarciata, ma sta buono-buono dentro le vene.
Seduta di spalle alla destinazione.
Recitare la felicità è la nostra miseria.Quanti provini hai saltato nella vita? Come si contorce in testa il tuo pezzo forte, sbiadiscono le parole una ad una, perdono valore, radici sotto la pelle...Continuiamo a strisciare dietro l'angolo sospirando.
Seduta di spalle alle destinazioni.
Il signore di fronte schiaccia un pisolino mentre io schiaccio i pensieri contro il vetro del finestrino.Come sono vivi i tramonti quando trovi il tempo per prestargli un po' d'attenzione.Eppure non chiedono altro; un paio d'occhi che confondono i colori, un paio d'orecchie buone ad inventarsi ragioni e prendersi le note di vecchie canzoni che passano alla radio.
Ma che forma ha il ricordo?
Osservo il tramonto con la fronte che lascia chiazze di sudore sul vetro.
Sul vagone si espande odore di panino al prosciutto.
"Cazzo, romantico"- avresti detto.

La bellezza è un paradosso.E' il punto di rottura.E' quel lampo impazzito nello scontro tra orrore e perfezione.La bellezza è il ciccione seduto con le gambe incrociate a lanciare il suo mantra di leggerezza, il suo pensiero-piuma, infinito come l'universo, è il figlio di D-o, è l'uomo senza volto.
La bellezza è puro orrore.L'orrore per quella canzone che continua a cantarti ogni verità però in una lingua che non ti sei mai fermato ad imparare come merita...e allora fissi il vecchietto che dorme con la bocca spalancata, mentre il vento- vecchio amante spudorato- rimescola i profumi, ti prende la testa, ti trafigge il petto, diventa Verità su quel minuscolo livido viola sul collo.La bellezza...
Il mio pensiero elettrico scorre caldo e penetrante lungo i binari, pazzo come il tuo sguardo, immobile a fissare il treno che sparisce piano.La bellezza è orrore, è lo sguardo allucinato di un giovane al binario 17.
E l'arte è bruttezza, l'arte è sgomento, l'arte è la pessima copia dell'Idea, l'arte è il mio dolore unito al tuo.Due dolori meriterebbero di più di un treno che scorre via attraverso la pianura padana, più di un foglio stropicciato che s'impregna dell'odore di panino al prosciutto.L'arte è il capitolo più triste della vita dell'artista.L'arte è miseria, stare fermi a inventarsi la vita a parole.
Bellezza è il reale. Bellezza è la lunga barba bianca di Whitman che canta il corpo elettrico.
Quali parole saprebbero tradurre il Principio?Quali parole saprebbero dire quell'ora passata in silenzio seduti al bancone del locale peruviano a  guardar fuori dalla vetrina la pioggia, a guardar i ragazzi che vendevano le rose, a guardar la gente correre a casa, coppie che si amavano sotto la pioggia, coppie che tacevano sotto l'ombrello, coppie sole.Quella sciocca scommessa che vinsi per la quale ballammo sotto la pioggia sul ponticello, lungo il Naviglio.Chi saprebbe disegnare una pioggia che non sa bagnare?
Oh orrore, bellezza..e ora lontani.


La bellezza è una stazione desolata.E' la vecchia coperta che abbiamo lasciato a Teresa alla fermata di Cadorna, è quella stella di cui non saprai mai la forma, è il caffè bollente sui tuoi pantaloni, è un esame fallito che dovrò ritentare, è il tuo sguardo timido mentre fuori dal fast food spii i miei stupidi giochini con gli stuzzicadenti, è il timore di entrare, è il timore di non poter andare via.Sono i problemi di quel barbone che abbiamo incontrato una notte a Sant'Ambrogio, mentre ci raccontava la bugia della bolletta del gas, il suo alito sapeva d'alcol-dolore, gli abbiamo versato in mano tutta la moneta che avevamo.Certe volte la verità importa ben poco, certe volte la verità si vergogna così tanto della sua stessa fragilità.La bellezza sono i punti rotti di tuo padre dopo l'operazione, è il tuo pugno contro la macchinetta del caffè, è il ragazzo senza nome nel processo Cheng, è il cagnolino che abbiamo chiamato Twix che scodinzola appena mi vede arrivare...mentre ti osservo lavorare là dentro al ristorante, vorrei essere la goccia di sudore che scende sulla tua fronte.Mi dimentico del capitolo sui titoli di credito che dovevo finire di studiare e prendo a parlare a Twix:
"Siamo così piccoli Twix. E no, hai ragione, non è tempo per rivoluzioni stanotte, è tempo di reinventare i cuori.Non puoi salvare tutti i cani del mondo Twix, ma puoi condividere il tuo osso con Lara..sì, vedo che le piaci, scodinzola, corri da lei Twix, fai la tua rivoluzione..."

L'arte è bruttezza, è il pianto di chi annusa l'Essenza dell'infinità sublime del reale ma non sa farla conoscere al mondo.
Io canto l'angolo più squallido del pianeta, laddove giace non scoperta la bellezza.
Io canto la bellezza del reale.
Corri, corri, corri verso il mio pensiero impazzito.
L'anima farà il miracolo della rivoluzione silenziosa, stendendosi sulla tua mano cancellerà i confini.Non stringere i pugni, il mondo intero non ti serve per costruire il tuo impero..Lascia un palmo d'anima ad ogni essere umano.
Lascia il binario 17 e cammina verso casa.
Io tornerò!

L'hombre invisible- sulla morte di William Burroughs




Perché fare questa breve disquisizione sulla morte proprio ora? Perché sono le 21:00 di un venerdì sera di dicembre, fuori piove da ore e qui dentro ascolto Charlie Parker bevendo un cuba libre fatto in casa con un rum bianco scadente. La lampada sulla scrivania illumina questo disordine e tutto trasuda una dolcezza infinita, tanto che si può parlare di tutto, anche della morte.
Ho sempre pensato che la morte degli artisti debba essere spettacolare, o per lo meno un evento tragico, penosamente tragico.Un finalissimo atto di scontro con il mondo, nel quale essi sono sempre stati dei "diversi". Ecco, una morta diversa, che vada fuori dalle regole dell'umano percorso, una morte che per lo meno serva ai posteri per innalzare ad angelo l'artista, e accusare la crudeltà del mondo. Sì, mi piacciono le esagerazioni.
Ed "esagerazione" è l'unica parola che può descrivere  l'esperienza di vita di Wlilliam S. Burroughs, l'hombre invisible. Colui che sfidò il potere distruttivo delle droghe, colui che sfidò le regole dell'amore, colui che sfidò la parola, colui che distrusse il corso dei pensieri, colui che convisse con lo spirito terribile, colui che fu assassino, colui che pianse nella notte per il destino dei gatti, colui che mancò al funerale del padre, colui che lottò per la liberazione della mente, colui che vide tutti morire...colui che vide morire suo figlio e tutti gli altri. Quest'uomo la vita del quale è inaccessibile a tutti noi, quest'uomo che fu un mistero perfino per se stesso, che fu un ospite indifferente in un corpo viaggiatore, il suo diabolico potere di sopravvivere a tutti i suoi dolori, l'uomo  che provò tutto e non scelse nulla, l'uomo che si tagliò l'ultima falange del mignolo sinistro (magari solo per vedere che succedeva) morì all'età di 83 anni nella sua perfetta casetta bianca. Una morte da vero borghesuccio.Una morte banale.Una morte e basta.
Ed io sono qui e dico, ci deve essere una spiegazione! Io  che me lo immaginavo nudo, sopra una sedia, magari pieno dei suoi disegni, con intorno i suoi sei gatti, con in bocca una sigaretta e magari la cravatta per mantenere sempre un aspetto signorile, e uno sparo sulla fronte, magari uno sparo artistico, così da coronare con un quadro d'autore quel momento del trapasso da lui così serenamente invocato precedentemente.
Si dice che Burroughs fosse ansioso di scoprire la morte, e io oserei dire solo per vedere di che si trattasse. Così arrivò quel momento, più quieto che mai, più comune che mai.E lui nemmeno si girò per dire addio, già me lo immagino là, tutto preso da se stesso, tutto preso dal mondo nuovo da esplorare.In un istante non era più uomo, era ALTRO; incurante di quel mondo al quale non s'accorse mai di appartenere.
Ma forse fu questa morte ordinaria che ci rende oggi in grado di parlarne, altrimenti quell'esistenza così fuori dal comune, quell'esistenza così terribilmente burroughsiana, sarebbe andata a confondersi con il mito, con il mistero, un altro Gesù...E' come se quella morte comune gli avesse dato un'identità.Un'identità che lui rifiutò in vita, giacché lo chiamarono il padre spirituale dei beat ma la sua scrittura fu altro e la sua vita un isolamento continuo, ispirò il cinema ma lui non faceva altro che recitare se stesso, ispirò il punk ma non si lamento mai, ispirò le arti visive ma lui non fece altro che distruggere la pittura con i suoi quadri.Tutto era assolutamente burroughsiano tranne Burroughs che era altro da se.
"Vivi in fretta, morirai tardi",  disse con la sua impressionante veggenza.E così fu, un razzo con un atterraggio lento e noioso.Non conosceremo mai nulla del suo percorso di vita ma solo il buco nero della sua caduta.