L’INCONSCIO
Un tempo avevo sete di tutto
Ora mi dissetano principalmente di alcolici.
Un tempo mi perdevo con leggerezza per poi
ritrovarmi,
senza fretta,
in una notte qualsiasi, tragicamente o
gioiosamente
– sempre scandalosamente fuori dalle righe.
Ora hanno aggeggi tecnologici che
dicono esattamente dove mi trovo, come e perché.
Non ho bisogno di pensare.
Le parole mi si incastrano tra i
denti.
A volte cerco di spingerle fuori
ma esse arrivano a valanghe, giù, giù,
si spargono ovunque, malamente
masticate,
non digerite,
sbagliate, zitelle, controverse,
si piantano tutte nello stomaco e poi
infettano il sangue ed i nervi
– rimangono in circolo come un virus.
Ci vuole coraggio per espellere le parole immagino,
giacché dalle bocche che mi
ospitano ne escono poche,
malandate, ormai sfinite,
smangiucchiate, storpiate, andate a male.
Vedo ovunque fiori che non vorrei
cogliere
e fremiti che vorrei venissero
colti
ma i corpi che mi ospitano sono
restii agli abbracci,
li sento ripetere tra se e se davanti allo
specchio, di nascosto,
nei bagni dei tribunali, negli uffici,
nei bar a notte fonda,
li sento dire: “sto bene, non ho
bisogno di nessuno, gli abbracci sono per le femminucce”.
Ma Davis e Ginsberg e Whitman con la sua barba
bianca d’America zozza e fiera,
loro erano uomini, eccome se lo
erano.
Tra eroina e cazzi,
improvvisazioni e solitudine
nella lunga lunga lunga strada
del risveglio si sono fatti abbracciare,
chi dalla disperazione, chi dal genio,
chi dall'amore
- nudi e crudi- si sono fatti
abbracciare.
Vivo in case confuse – pacatezza a colazione,
il cucchiaino allo stesso posto, tovagliolo e
due fette biscottate
- vivo in case confuse- pacatezza
e buon senso da mattina a sera
e anime smilze e prosciugate.
Il tempo ci mostra la lingua.
La nostalgia spezza le vene come
fossero rami d’autunno,
eppure pantofole sempre ordinate
fuori dalla porta, il cane a passeggio,
poco sale, poco affetto- poveri
cuori in subbuglio.
Pregano per l’autocombustione ma
non c’è una miccia di passione umana
- indifferenza ed entusiasmo
fuori posto, nuova catena di vestiti in centro storico.
Entrano nelle stanze, entrano
nelle vite, entrano nei mesi pieni di
cuore,
e prima poi,
-perché prima o poi escono tutti-
ci escono senza un cuore.
Possono avere ricordi toccanti,
visioni e paranoie dalla bellezza terribile,
ma non sanno, non vogliono,
non riescono a tradurre in parole
e gesti.
Guardano ma non sanno riconoscere
…giornali, caffè, inezia,
frenesia
ma non sanno riconoscere.
Non sanno riconoscersi.
Mercanteggiano con le loro paure,
non ascoltano,
fanno compromessi con le
previsioni meteo e le rate dei mutui,
si svendono a se stessi a prezzi
stracciati ed a prezzi folli cercano di ricomprarsi
E mentre l’Io diventa sempre più
altro,
i sogni rimbaudiani vengono messi al rogo,
come distorsioni malate o atti di
stregoneria
- coerenza amore folle,
ideali, ideali, ideali.
Altro, altro, altro.
Si rattoppano solo le disillusioni
e non si sbucciano più le ginocchia.
I confini si intensificano dentro e fuori,
come vene trasparenti i confini,
definiscono cuori e destini,
umori e macchinari. I confini.
Il male è sempre più male, ed il bene nemmeno
tanto bene.
Niente assomiglia più a se
stesso, ad eccezione delle bugie.
Si fanno falò con i desideri. Si
riempiono buche con le paure.
Si ripuliscono grandi vetrate lucide con i compromessi.
Si comprano oggetti con destini e
destini con oggetti.
Ti rubano il sonno e te lo restituiscono
pieno di debiti.
I confini. I confini.
Ah l’uomo povera crudele creatura
quasi perfetta.
Non sa dove inizia e dove finisce
il suo grande immenso se stesso, il suo minuscolo ed insignificante se stesso.
Occhi culo mani bocca baci dolori
ernie illuminazioni gravidanze vene varicose commozione disagio dieta
indignazione marcia paralisi gola orecchie grida proteste voci occhi Sole soli,
soli, soli.
L’UOMO
Io ho sessant'anni. Porto sempre un vestito, camicia bianca e papillon. Se non fosse
per la giacca lercia, più grande di quattro taglie nessuno mi taccerebbe di
essere un barbone. Di fatti non lo sono. Ho casa. Ma ho le mie abitudini. Mi
aiutano a non diventare matto, non del tutto.
Eppure
vedendomi molti direbbero che già lo sono. Come la storia di questo papillon, è
un’abitudine, mi ricorda ogni giorno, anche se ogni giorno più puzzolente, che sono esistiti i tempi in
cui mi facevano regali, specialmente le donne…una donna.
Ho un’altra
abitudine, due volte a settimana vado dal pakistano di corso Garibaldi, mi
compro una confezione di merendine scadenti, quelle con la farcitura all'albicocca, il cioccolato non mi piace, mai piaciuto, una bottiglia di vino,
e poi mi siedo sulle panchine, in Piazza 24 Maggio- preferisco quando ci sono
ragazzi giovani accanto a me, loro conservano ancora una purezza che mi mette a
mio agio, bevono dalle bottiglie come me, e mangiano schifezze, come me. Non mi
guardano male, come gli adulti, non fanno strane smorfie, ridono o bisticciano
spensierati, non notano niente di strano, nessuna bizzarria. Siamo simili, mi
fanno sentire meno solo.
Io scarto la prima merendina, poi la seconda,
poi bevo un sorso di vino e poi finalmente mi accendo una sigaretta. Non penso,
aspiro, profondamente.
D'altronde a
cosa puoi pensare quando non ti ricordi nemmeno se è stata tua moglie a
regalarti quel papillon..che poi chissà cosa vuol dire, moglie. Il pakistano mi
parla spesso della sua famiglia. Io vorrei proprio capire che significa, vorrei
potermelo ricordare. Ma ho le mie abitudini, e quelle dicono alla testa, stai
calma, va tutto bene. Così mi dico, va tutto bene, non esplodere, non oggi,
ancora un altro giorno, prego.
Allora mi accendo la seconda sigaretta, ed i
ragazzi continuano con il loro chiasso spensierato. A volte mi chiedono una
sigaretta, a volte gliene chiedo io una. Poi mi sdraio sulla panchina e fisso
le stelle. Non che si vedano dal centro città ma mi piace sapere che sto
puntando lo sguardo verso qualcosa di profondo, sconosciuto e luminoso. Non ci
si può perdere nell'infinito, perché non ci si può nemmeno ritrovare, non ci si
può soffocare nell'infinito perché non c’è nemmeno bisogno di respirare.
M’accorgo di respirare solo quando mi viene un attacco di tosse e devo alzarmi
dalla panchina. Raccolgo le mie cose e mi avvio, a volte non mi ricordo nemmeno
il dove ed il perché, non so nemmeno dove arrivo né quando, ma so che ho la mia
abitudine di merendine e sigarette e cielo e ragazzi sconosciuti ma
amorevoli, ed è solo uno sciocco rituale
di un non barbone con il papillon…ma mi tiene vivo, dice alla mia testa non
scoppiare, non oggi, così inganno i giorni, inganno le ore ed ogni loro minuto.
Non sono sicuro che siamo venuti a questo mondo per ingannare i giorni, ma per
ora va così.
Una ragazza dalle parti della biblioteca
municipale mi ferma un giorno, fumavo, anche lei, mi allunga un libro, “Orientarsi
con le stelle” di un certo Carver. Erano lunghe poesie che non sembravano
poesie. Lo legga mi dice, ed allora per non deluderla lo feci. Non avevo
nessuna voglia di poesia né allora, né ora, credo. Non ci capii granché, eppure
parlava schietto. Pagine e pagine riempite di gente stramba e sola, persa e delusa,
gente che beve cognac di prima qualità davanti al camino e non sa scrivere
lettere d’addio, gente che porta a passeggio il cane e mangia nei bistrot ma
non sa piangere, gente che viene pagata per scrivere eppure non saprebbe dire
una parola autentica su di sé. Allora mi sentii meglio. La miseria umana
infinita e dolcemente penosa. Orientarsi
con le stelle, orientarsi con le stelle. Ma non ci sono stelle visibili in
centro città-lampioni-motorini-tavoli e sedie-licei pieni di fantasmi felici-insegne
ed insetti tecnologicamente avanzati-escrementi-distributori del latte- crepe
sui muri- graffiti e graffi-padroni e collari- padri e rimpianti.
No, non ci sono stelle, né orientamento
finché non ci accenderemo interiormente.