Non era la lampada fuori posto. Forse.
Eppure…no.
Luca era rientrato alle 23.30. In casa,
i coinquilini avevano riunito gli amici per l’ennesima cena. Dopo qualche
bicchiere si iniziava a sbrodolare chiacchiere senza senso per esorcizzare la
paura del vedersi adulti.
-“Bella Luca, dai vieni a bere un
bicchiere insieme a noi. C’è Davide che sta dando i numeri.”
In sala una nuvola di fumo smorzava il
profilo del mobilio. Sulla poltrona le giacche creavano una montagna liquida. Ai
piedi del divano il suo cappotto preferito giaceva per terra. La polvere
controluce sulla credenza faceva pensare a sogni ammuffiti. Il catalogo di Ugo
Mulas si trovava pericolosamente vicino alle bottiglie di vino rosso. Pensò
alle mani lerce dell’amico che lo aveva maneggiato. Ebbe un fremito. Attraversò
la sala, prese il catalogo e lo rimise al suo solito posto. Sospirò.
-“No ragazzi, io sono cotto. Me ne vado
in camera mia.”
Quella notte aveva piovuto molto. Il
giorno dopo si svegliò come chi, sul treno, trassale per paura di aver perso la
fermata giusta. Allungò un braccio, oltre il letto il precipizio. Ci sono gesti
che sono intraducibili in sensazioni, tanto meno in parole.
L’appartamento di via Cecati taceva. Non
era un silenzio piacevole, sembrava un’apnea angosciosa. Luca rimase seduto sul
letto per qualche minuto. Non cercava di ricordare, non pensava affatto.
Riusciva a sentire Carlo russare nella sua stanza in fondo al corridoio. Poi si
alzò di scatto. “Ho bisogno di una doccia”. Sotto la sedia il gambo di una rosa
secca. Sul davanzale un paio di scarpette da donna accartocciate. Fuori in
strada neanche un auto. Che strane le domeniche prefestive!
-“Questa casa sa di morte”- disse tra se
e se attraversando il piccolo corridoio che portava in sala. Entrando trasalì:
“ma che cazzo!!!”. Si grattò la nuca con nervosismo. Poi frenò ogni istinto.
Sul divano, uno degli amici dormiva sbavando sul bavero del suo cappotto
preferito. All’esclamazione di Luca si svegliò.
-“Giulio mi hai fatto prendere uno
spavento.”
-“E pensa a me bello…ma che ore sono?
Minchia devo andare da mia nonna su in montagna oggi per pranzo. Mi sa che me
tocca alzarmi. Che c’hai una sigaretta?”
-“Credo di aver visto un pacchetto là
sul tavolo. Lo vuoi il caffè, sto per farlo?”
-“Alla grande fra, ci sta proprio! Cazzo
mi sento proprio incriccato.”
Luca sperava che il dialogo cessasse
quanto prima ma Giulio, dopo un passaggio rumoroso in bagno, si sedette al
tavolo della sala facendo l’elenco dettagliato del menu della nonna. C’è
qualcosa di malsano nei logorroici mattutini. C’è qualcosa di molto losco.
Luca se ne stava appoggiato al frigo.
Fuori la nebbia si stava diradando. La sirena di un’ambulanza ruppe la sua
apnea interiore riportandolo alle melanzane fritte di Giulio. Sui pantaloni ancora le macchie di vino rosso.
-“Giulio devo proprio farmi una doccia
ora. Ti saluto. Tu basta che tiri la porta quando esci ok.”
Sotto l’acqua bollente ripensò di nuovo
alla lampada. Quella maledetta lampada fuori posto.
-“Perché non mi rispondi? Dimmi cosa
significa? Non fare la bambina, Annie, non fare la bambina”- l’aveva supplicata
la sera prima ma lei niente.
Annie aveva una bellissima chioma di
capelli, sproporzionata alla testa. Mani ossute, corpo minuto tanto da sembrare
che si sarebbe piegato su se stesso da un momento all’altro. Si potrebbe dire
che disegnava cose, ma di questi tempi si usa dire illustrator. Il suo talento
e la sua fama parevano inversamente proporzionate alla fiducia in se stessa.
Faceva un uso eccessivo dei social
media, con intelligenza e ironia ma pur sempre eccessivo. Questo tradiva un certo
bisogno di piacere; il suo Io sapeva cavalcare selvaggiamente la solitudine, il
suo Sé se ne stava imbronciato in un angolo a piagnucolare.
Annie e Luca avevano una relazione
malandata, come il ginocchio di lei. Passavano dalle corse sfrenate ai ritiri
taciturni a leccarsi ferite, nella maggior parte delle volte, immaginarie.
Luca era un architetto. Da qualche anno
aveva investito tutte le sue energie nel progetto del recupero di un piccolo
teatro storico di provincia. Il piccolo teatro di provincia era sbocciato e ora
richiedeva più attenzioni che mai.
“Più di me…ah non so io, sposatelo quel
teatro”- aveva urlato Annie durante una lite di routine. Lui aveva cercato di
prenderla per mano ma lei gli aveva dato un morso.
“Non voglio parlarne”- faceva lei, ogni
volta che si ritornava sull’argomento.
Ma lui voleva parlarne, eccome. Il suo Sé
sapeva cavalcare selvaggiamente la solitudine ma il suo Io era un cacciatore di
logica, chiarimenti, risposte.
-“Non so vecchio, quella è un po’ una
cazzo di pazza.”- si sentiva dire dagli amici.
-“Non so bella, quello è un po’ moscio,
un egocentrico.”- si sentiva dire Annie.
-“Lo so ma non riesco a smettere.”-
rispondevano loro all’unisono in due dimensioni sentimentali inconciliabili.
Era capitato, anche se molto raramente,
che queste dimensioni si incrociassero. Un anno prima, era estate. Quel giorno due
amici si sposavano. Luca svegliandosi aveva trovato Annie, in mutande e canottiera, seduta di fronte al
frigo aperto. Beveva direttamente dalla bottiglia del
latte.
-“La colazione è servita”- aveva detto
lei indicando con la mano il posto vicino sul pavimento - “e dopo ho un folle
progetto per la giornata. Chiacchiere sulle panchine dell’Esselunga al fresco e
poi cinema all’aperto con annessa lotta contro le zanzare tipo Avengers.”
-“Oggi c’è il matrimonio. Anzi, devo
scappare. Ho i vestiti a casa dei miei. Tu sai già cosa metterti?”
-“Ma…mmm.”
-“Cosa?”
-“Niente, tu vai, ci sentiamo più
tardi.”
-“Ok”
-“Ok!”
Molte ore più tardi, quello stesso
giorno, dopo svariati messaggi turbolenti e chiamate interrotte, Luca aveva
perso la pazienza.
-“Quindi vieni o no?”- le aveva urlato
al telefono. Non gli piaceva urlare ma tant’è…
-“Ma non lo so, cioè va be’, vai va,
tranquillo.”- aveva detto lei, certa del fatto che si sarebbe vendicata
psicologicamente nella prima occasione utile.
-“Ma cristo, Annie, cristo che risposta
è vai?! Non è una risposta Annie, perché per una volta non cerchi di essere
normale?”.
Per lei la lordura sentimentale
fertilizzava l’amore. Per lui gli incastri del fato erano semplici calcoli
matematici misurabili.
A quel matrimonio Luca ci era comunque andato,
senza di lei. Standosene in disparte aveva avuto una certa visione. Mezz’ora
dopo avrebbe bussato alla porta di Annie. Lei strillava sopra una base di
karaoke di pessima qualità. Aprì la porta con una bottiglia di vino in mano.
Non si poteva escludere che la vendetta psicologica fosse già in atto- ma, in
tutta quella teatralità, Luca colse solo il lato buffo.
-“Beh che ci fai qui?”
-“Ero lì in un angolo e c’era questa
lampada sul tavolo in giardino, sotto un bel porticato e mi sono detto che
sarebbe stato molto bello osservare il tuo profilo sotto la luce di quella
lampada.”
-“E quindi?”
-“Quindi sono qui, semplicemente.”
-“Beh entra allora, se vuoi.”
Avevano passato una serata
spaventosamente perfetta. Senza fare l’amore. Era già passato un anno!
Ora, seduto al tavolo da pranzo dei
genitori, continuava a ripensare alla sera prima. La teiera fischiava sopra il
fuoco. I suoi dormicchiavano in sala. Le previsioni meteo non promettevano
niente di buono.
Ultimamente era stato molto impegnato
con l’organizzazione della nuova stagione teatrale. Lui e Annie si vedevano
molto poco. Lei, però, sembrava più serena del solito, viaggiava come sempre
per lavoro e pareva anche che si divertisse parecchio.
E’ strano come le tragedie spesso si
consumino molto discretamente.
-“Hey ti va se mangiamo qualcosa fuori?”
-“Siediti Luca, per favore”.
-“Ok, che succede?”
-“Ho fatto una nuova copertina, sì per
un nuovo libro, mi hanno commissionato una nuova copertina. Un libraccio per
carità, di questo povero uomo complessato che si alimenta di
autocommiserazione. Che insomma non sa stare solo e sa stare troppo bene con
gli altri ma che poi con gli altri ci sta bene finché non deve perdere il
controllo su tutto…”
-“Si ok, non raccontarmi tutto il libro,
magari mi viene voglia di leggerlo.”
Lei nel frattempo era andata in cucina a
prendere due calici e la bottiglia di vino.
-“Insomma per questa mi sono ispirata a
te…”- disse allungandogli il libro.
Sulla copertina del libro un uomo solo
se ne stava seduto a bordo piscina con un bicchiere d’acqua vicino. Era giorno.
Su un tavolino basso posto stranamente al centro della copertina una lampada
accesa ma non collegata a nulla.
-“Insomma uno stupido idiota depresso a
bordo piscina che beve un bicchiere d’acqua, così mi vedi?”- avrebbe risposto
Luca ironicamente.
-“Che palle…”
-“Ma cosa, che palle che cosa? Mi
spieghi che c’è, Annie non sclerare per nulla. Che diavolo c’è?”
-“Questa copertina mi sembrava perfetta
come regalo d’addio.”
-“D’addio?! Cristo dobbiamo
ricominciare? Davvero? Si stava così bene…Annie perché? Mi mette a disagio
tutta questa follia. Su non scherzare. E questa lampada? Che mi sta a
significare?”
Lei beveva affacciata alla finestra.
Luca riusciva a sentirla digrignare i denti.
-“Perché non mi rispondi? Dimmi cosa significa?
Non fare la bambina, Annie, non fare la bambina”.
Lei aveva scaraventato il bicchiere di
vino contro il frigo.
- “Adesso puoi anche andare.”- aveva
detto senza aggiungere altro.
Il thè era pronto. La madre di Luca se
ne stava versando una tazza. Quella sera avrebbe voluto ci fosse
una partita di calcetto. Per lui la follia non digerita andava semplicemente
sudata.
“Quella stupida lampada non ha
senso”- pensò - “è quella stupida donna
che vuole farmi uscire matto.”