lunedì 9 dicembre 2019

JOLENE




        "Involontariamente verso queste tristi rive, mi attira una forza ignota-                                                                     cantava lo studente di medicina"- Anton Cechov

Era il 31 dicembre e camminavo lungo le strade illuminate di Reggio Emilia, sotto un sole quanto mai inappropriato. Giovanni e Alice discorrevano di cose, sì cose e nient'altro. Io seguivo la linea del marciapiede e di tanto in tanto canticchiavo qualche verso- tutta la situazione mi rimandava a quel racconto di Anton Cechov, "Crisi di nervi".
Mi chiamo Paul e sono uno studente di legge. Superflua informazione. Riconosco la mia goffaggine così mi ritiro lungo la linea del marciapiede a mettere alla prova la mia capacità di equilibrio.
Era una giornata di sole e mi sentivo come Vasil'ev che "commosso guardava gli amici, li ammirava e li invidiava. Come tutto in quegli uomini, seri forti e allegri era equilibrato. Come tutto nelle loro menti era definito e liscio!"
Mentre io sono Paul, giovane invecchiato studente di legge e ho una voglia incontenibile di confessarvi che scrivo anche se questo mi riporta ai giorni precedenti a quel 31 dicembre- tutto mi turba oltre mondo- quindi taccio.
Giovanni e Alice si scambiarono occhiate piene di significato quando a un tratto mi staccai da loro andandomi a sedere su una panchina in piazza Fontanesi.
"Sei sicuro di stare bene Paul?"
"Certo"- in mente mi venne l'immagine di quel cucciolo di labrador che tengo incorniciata sulla scrivania- mi toccai la faccia, era ancora al suo posto ma non la sentivo.
"Vuoi che ti lasciamo da solo?"
"Vuoi che resti con te? Vuoi?"- disse Alice col suo vitale ma irritante senso dell'altruismo.
Umanità! Umanità!
"No, andate. Ci rivediamo stasera"
Se ne andarono bisbigliando, terrore nei loro occhi, indifferenza nei miei, perché quella crisi di nervi stava per svanire- lo sentivo che era ora- e mi sarei ritrovato più solo di prima, più stabile di prima, più forte di prima.
Oh orrore! Sentii il vento fischiare lungo i fiumi -dolorosi canti d'addio- e guardai in alto; vecchi rami di alberi come sporchi capelli di streghe venivano piano piano inghiottiti dalla nebbia. Avrei ancora dovuto sopportare l'ennesimo crepuscolo inventando parole immobili seduto su una fredda panchina?
                      "Nella propria selvaggia natura ci si ricrea nel miglior modo della propria non natura, della propria spiritualità"
Oh, al diavolo quel senza-dio di Nietzsche. Elessi mio Signore quel tizio con i baffi e la pelliccia che passava in bici e assomigliava a E.A Poe e seguitai speranzoso ad ascoltare musica natalizia in chiave  jazz- una prostituta vestita da gran dama.
Tutta questa storia della crisi iniziò quel giorno in cui incontrai Jolene...oh Jolene e la sua voce così profonda e rassicurante (ho bisogno di un altro sorso di whisky) Jolene e la sua giovinezza -la sua confortante incoscienza.
La incontrai in una libreria di libri usati. Ma finì. Certo che finì.
Quel giorno, in quella libreria cercavo materiale per un articolo  che sarebbe dovuto uscire sul giornale studentesco. Gli ultimi raggi del sole, quelli più intensi, le coprivano il volto corrucciato mentre cercava tra gli scaffali.
Annusavo avidamente il profumi di libri vecchi e mi chiedevo quando chiudeva quel posto- dimenticandomi di quei luoghi senza aperture, né chiusure, crudeli come l'immaginazione e perfetti come il volto di d-o, luoghi che esistono ovunque ma non sono da nessuna parte: gli Attimi, luoghi della mente dove noi ci buttiamo a capofitto dimenticandoci di lasciare fuori i nostri ingombranti sentimentalismi- così vennero profanati i mari del nord.
Mi allungò un volume di Ginsberg dentro il quale aveva messo un fogliettino - lessi parole che credevo fossero "delle menti distrutte dalla pazzia"- e m'innamorai di lei, del suo corpo che immaginavo nelle lunghe e desolate sere trascorse in qualche squallida birreria, attendendo di rivederla ancora, attendendo una sua parola.
E un giorno Jolene tornò, riapparve con labbra terrificanti e con dita che suonarono i genitali della mia mente impazzita e vidi fanciulle gettarsi dai ponti, d'oro vestite, in quella notte in cui lei continuava a dirmi "ti amo", senza sapere nulla di me, ma potevo io mandarla via?! Era tutto ciò che avevo segretamente sognato.
Mi legò a se senza fare un gesto- così nella speranza di affondare il cuore unghioso nella sua pelle, la portavo ovunque con me.
Ma lei non comprese mai quel mio bisogno di dondolare per strade al ritmo di jazz. Intere notti tremavo più per il suo disprezzo che per gli incubi. Oh Jolene, cosa avrei dato per stare seduto in un angolo osservandoti scrivere con quelle tue mani come grilli ubriachi sulle spighe d'oro nelle notti d'agosto.
La portai ovunque, ovunque potessi esserci anch'io, dietro le quinte dei miei spettacoli di teatro ma lei si vergognava della mia inerzia, la portavo nelle aule universitarie ma lei si vergognava del mio scetticismo, la portavo nelle feste private ma lei si vergognava della mia goffaggine così mi rifugiavo in bagno con una bottiglia di vino dimenticandola fuori.
Volevo scrivere per lei, ma a lei questo non bastava. Un meccanismo perverso sembrò perfezionarsi di giorno in giorno finché gli Zoa* vinsero sulla mia volontà e diventai uno fuori dall'Eterno, uno indifferente.
Oh Jolene, il mondo condannò ogni nostra promessa alla ridicolaggine.
E ora sei spettro: elementi dell'ideale che hanno cessato di essere in comunione con il Divino (definizione inaffidabile).
Quante notti ho passato da ubriaco a parlare con i personaggi dei quadri di Hopper, li ho odiati sai, li aggredivo ogni volta che assaltava i miei occhi quella loro indifferenza alla condizione di solitudine universale. E non potevo chiamarti. Come biasimarmi, m'immaginavo la scena, un orgoglioso peccatore privo di talento e di morale che chiede a Gesù di diventare il suo compagno di merende...era più semplice odiare i personaggi di Hopper.
Beatrice e Paola e poi Rita…così mi trascinarono nelle loro vite prive di intensità, prive di complicazioni. Così m'illusi di poterti dimenticare e una volta fuggito dall'acquario soffocante della nostra unicità mi convinsi di sentirmi bene nell'oceano dell'anonimato. Mi convinsi...fino a che compresi che non ero fatto per l'oceano- la grandezza mi ha sempre spaventato.
Tutto ciò che avevo era una certezza profonda, come profonda era l'angoscia che generava. Quelle notti a sussurrarci parole, tutte quelle notti a scrivere sciocchezze più sante di tutti i santi libri del mondo,  tutte quelle notti...oh che angoscia- come quel pazzo che cammina per la strada e grida di aver visto il paradiso, un tizio lo ferma e gli dice che si sbaglia, che non esiste il paradiso ma il pazzo continua ad affermare che esiste, allora gli si chiede di provarlo così lui inizia un pianto angoscioso e disperato perché non può provarlo, ma lui sa che esiste, lui lo sa!
Oh Jolene, io avrei voluto toccarti in eterno ma come può un uomo salvarsi dalla vita se non vivendola? Se il tempo è la copia dell'Eternità°, beh il nostro tempo era una brutta copia indecifrabile- e tu sai della desolazione del crepuscolo- ed ecco che scioccamente parlo a te come se tu fossi presente ancora, come se tu fossi il miracolo della mia mente, tutta creata da me per dare vita a quel regno dei poeti tanto bramato nelle fantasie adolescenziali.
Merda a me! Io che tra i minacciosi rami degli alberi vedo il suo volto- Jolene imbronciata nemmeno mi guarda, nemmeno si cura di me.
Molto spesso ci accusavamo a vicenda di non amarci e non ci furono lotte più inutili nella storia dell'umanità. Tutto quello mi rimanda a un passo di Kerouac che dice:
"Lo Zen è quando la Luna mi segue verso nord e ti segue verso sud.
La Luna vera chi sta seguendo?"
L'amore era vera ovunque fuori dai nostri dubbi, ma non ci fu possibile capirlo così lei soffrì per la mia indifferenza e io per la sua testardaggine mentre ci bastava abbandonare le menti.
Mi chiamo Paul e studio legge. Certe volte ho bisogno di fissarmi allo specchio e dirmelo. Ho vissuto tanto a lungo fuori dalla mia vita che ora faccio fatica a credere di averne una. Io ho decine di taccuini e quadernetti pieni di scarabocchi che disconosco e di notte, a volte, sogno il pubblico che assiste ai miei spettacoli di teatro colpirmi con frutta andata a male, così io prendo due prugne e corro a costruire Frosty, l'uomo di neve, poi mi metto seduto vicino e piango perché pare cieco con quelle due prugne al posto degli occhi!
Ma né le mie fantasie, né la mia coscienza riflettono la verità delle cose- mi chiedo cosa può essere in grado di rifletterla- così mi viene in mente Jolene che mi trascina su un letto in una camera spoglia e grigia in un pomeriggio qualsiasi...Stop!
Sono Paul e studio legge- tutto quello che avrei voluto fare non è perseguibile se non fuori dal tempo. Alla finestra del cranio si affacciano clown con sorrisi mostruosi. Ad ogni incubo volevo chiamare lei. Avrei voluto raccontarle come una notte rientrando in camera dopo una passeggiata sotto la pioggia avevo sfidato il disordine della stanza mettendomi a dormire con i capelli bagnati. Tutto questo per farle capire che c'era l'aria che spostavo e la pioggia che mi bagnava e certi occhi come quelli di Gil che scrutavano penetrando nel profondo delle mie contraddizioni e tutto ciò dimostrava che esistevo, esistevo per lei, per Jolene.
Ma se certe notti mi trascinavo in degradanti birrerie o mi isolavo nella stanza a bere vino da 99 cent o leggevo libri impegnativi(?)  era solo perché il  mio animo vigliacco temeva la spontaneità, quel suo odioso essere Jolene all'infinito, quella sua saggezza così ben camuffata. Così osservavo la cornice con la foto del cucciolo di labrador sulla mia scrivania e giravo tra le dita una penna, compiacendomi di quel vuoto perpetuato istericamente pomeriggio dopo pomeriggio. Forse la colpa era tutta del mio egocentrismo?
Sono Paul e  sono uno studente di legge...hum, no, era solo che ogni mia condizione affermata stava ad indicare una non-condizione. Ero debole e avrei continuato ad esserlo finché non avessi trovato un posto per me- sospiravo- un posto che però non stavo cercando, in verità non volevo trovarlo. Ma c'era una mente nella quale mi sentivo vivo, Jolene forse non lo sapeva, così certe notti mi mandava via. Chissà se lo avrebbe fatto se avesse saputo che in quei momenti mi sentivo il più sfortunato dei barboni, un vagabondo che si trascina nell'universo-bolla con il peso di troppe parole non esplose. Ma certe volte ero io a lasciarla fuori con le sue innocenti promesse sulle labbra, dispettoso come quel bambino che nella sala lettura della biblioteca un giorno interrompeva la narratrice a ogni frase, lamentandosi e sbuffando. Stizzito incrociava le braccia, incredulo protestava, interrompeva, rovinava i finali.
"Vai al diavolo Paul!" ricordo di averlo sentito tante volte e in quel vai al diavolo trovavo tutta la saggezza del mio Zarathustra. Lei era la mia morale, la mia devastazione, la mia delicatezza, il mio Mississipi arrabbiato, il mio jazz indifferente, il mio vino rosso, la mia nebbia invisibile. Ma lei stava diventando grande ed io vecchio e lei sarebbe diventata sempre più grande ed io nemmeno tanto vecchio. Jolene studiava con il fervore delle persone equilibrate, io con l'ansia dei pessimisti- tutta la mia razionalità e la mia conoscenza sprofondava nell'impeto del momento- ero il mio peggiore incubo e negli ultimi tempi pensai fosse tutta colpa sua! Lei m'insegnò ad abbandonare l'autocontrollo e io permisi al mio animo ogni inclinazione a grottesche esagerazioni. Così affermavo il contrario del contrario senza mai rinnegare nulla, correvo avanti avanti avanti- certe volte lei corse con me, finché ne valse la pena o poco più.





* Il mito dei quattro Zoa, come inteso da Blake nelle Visioni. La caduta dell'uomo eterno è dovuta alla ribellione dei quattro Zoa che sono: l'intelletto (urizen) l'emozione (luvah) la sensazione (tharmas) l'immaginazione (urthona)
° Così come inteso da Platone

domenica 1 dicembre 2019

LA PUREZZA DELLA NEVE



- “Andrà tutto bene, devo solo cercare di non morire assiderato” - pensò Charlie mentre il treno pareva arrancasse nel buoi della notte, più assonnato dei passeggeri che gli dormivano in pancia.
Fece di nuovo il suo numero ma dall’altra parte rispondeva sempre la segreteria telefonica. Il numero che avete cercato può essere momentaneamente….
“ Sì sì irraggiungibile o spento. Ho capito. Ma non ti stanchi mai di dire sempre le stesse cose?!” – inveì contro la segreteria a bassa voce-  “d’altronde me lo merito. Ma che mi aspettavo! Se ne esco vivo mi autopunisco. Mi guardo tutto il palinsesto di rete quattro per un mese intero.”
Il treno Lecce Milano delle 22.45 era quasi vuoto. Charlie aveva un rapporto complicato con i treni, li amava, finché non ricordava il viaggio del ritorno, e lui ritornava sempre, ogni volta da dove era partito.
“Non ho il cuore di tenerti sveglia quando domani hai un esame, riccioli d’oro. Ora vai a dormire, o a ripetere..insomma, sì adesso attacco…”
“Qui ha nevicato, avrei voluto ci fossi, saremmo stati lì seduti, senza dire una parola a guardare la neve” – gli aveva risposto Eveline, qualche ora prima. Charlie aveva sospirato profondamente e si era morso una mano dall’altro capo del telefono, senza riuscire a dire altro che un:
“Lo so riccioli d’oro. Lo so.”
“Prima di addormentarmi fisserò la palla di cristallo. Tu amami..”
“Oh cristo, ora devo attaccare” - aveva detto lui. Era corso in bagno e si era fissato allo specchio per qualche minuto. Certe persone vivono in una dimensione puramente sentimentale e quando la realtà sottrae a questa dimensione anche l’ultimo brandello di materiale..beh ecco, si direbbe che “sbroccano”. Scongiurato l’ennesimo attacco di panico era salito sul terrazzo e aveva fumato 4 o 5 sigarette mentre la Luna faceva la disinteressata.
Charlie aveva venti due anni. Una cultura personale che lo faceva apparire strambo davanti ai suoi coetanei. Dei lineamenti scuri e fieri. Una chioma bellissima. Un’acutezza spirituale che lo faceva apparire uno stregone e tanta, tanta sociopatia. Avrebbe potuto fare innamorare di lui chiunque volesse ma aveva fatto innamorare Eveline. Lei aveva una chioma riccioluta. Beveva tanti caffè e di notte non dormiva mai. Avrebbe potuto fare innamorare chiunque volesse ma questa è un’altra storia.
“Guarda, hey Charlie, guarda…”- aveva detto lei durante una video chiamata un anno prima - “Ho comprato questa cosa, di vetro. Va a batterie e la palla di cristallo si illumina.”
La “cosa” era una cineseria di cattivo gusto. Una palla di vetro soffiato con all’interno i tre protagonisti dell’avvento. Insomma, un presepe che si illuminava.
“Prima di conoscerti odiavo il Natale ma ora…”
Quella palla di cristallo aveva perso ogni valenza religiosa e i due avevano riversato sulla “cosa” un significato tutto loro.
Sul terrazzo tirava un gran vento. Un vento caldo di scirocco.
“La neve”-  pensò Charlie e si immaginò Eveline aggirarsi per la città, col suo andamento goffo, sprofondarci dentro.
“La neve e qui 19 gradi. Bah.”
Più il treno avanzava verso nord più nel bagno di quel vagone si sentiva un gran freddo.
Charlie non pensava a nulla. Non era solito dubitare delle sue scelte. Quando agiva pareva riversare tutto se stesso in quella unica azione e tutto il suo essere diveniva tutt’uno con l’istante. Quando dormiva dormiva e quando parlava parlava. Quando amava amava.
“Tu mi fai paura” gli ripeteva Eveline. Charlie si disperava al suono di quella frase. Lei non aveva mai cercato di spiegarsi meglio. Lui di capire.
“Avremmo potuto fissare tutto quel bianco, in silenzio, insieme”- aveva ripetuto sul terrazzo e dopo un istante, ficcato sigarette, un libro e il portafogli nella tasca della giacca si era diretto in stazione. Il treno stava per partire. I soldi per il biglietto non bastavano. Senza nessuna esitazione si infilò nel primo vagone e si rinchiuse in bagno. Non era solito dubitare delle sue scelte. Si fumò una sigaretta sbuffando da una fessura del finestrino rotto. Poi fece per aprire la porta quando vide il controllore sedersi sul sedile pieghevole tra i due vagoni.
“Cristo…proprio qui?!”
Si raccolse nella sua giacca troppo leggera per l’occasione e si accovacciò sotto il lavandino.
“Sarà lunga…”
Il treno pareva arrancasse nella notte, più assonnato dei passeggeri che gli dormivano in pancia.
Tutto intorno solo buio. Charlie pensava alla luce accecante di una città ricoperta dalla neve. Pensava al profilo di Eveline immerso in tutto quel bianco. Si addormentò, sfinito. Molte ore dopo, il saliscendi dei viaggiatori alla stazione di Piacenza lo svegliò. Era quasi l’alba ma ancora buoi tutto intorno. Si toccò la faccia sorpreso di averne ancora una. Tentò di alzarsi. Le gambe non lo ressero. I battiti del cuore sembravano rallentare.
“Se non esco da qui ci muoio” - pensò- “che brutta fine la morte nel cesso di un treno interregionale.”
Uscito dal bagno si rannicchio sul sedile in centro al vagone mezzo vuoto. Inviò un ultimo messaggio a Eveline: “sarò a Milano con il treno delle 07.45”.
Avrebbe visto la neve per la prima volta. Avrebbe visto una città tacere sotto il suo peso. Ed Eveline sarebbe stata al suo fianco. Avrebbe fatto esperienza della purezza. Fuori dal finestrino l’alba stentava a sconfiggere il buio e di nuovo si addormentò profondamente. Al capolinea si svegliò stordito.
Una volta fuori lo accolse il solito grigiore delle stazioni ferroviarie delle metropoli. Cemento, vapori, stridii delle rotaie in movimento. E odore di fast food. Camminò verso l’uscita inglobato dalla frenesia della folla. Tutto intorno neanche l’ombra della neve.
 In lontananza la vide, lì ferma in fondo al binario. Schiena ricurva, capelli arruffati, mani nelle tasche del cappotto più grande di due taglie. Negli occhi un luccichio strano che cadde sul labbro viola dal freddo. In quel luccichio scorse tutta la purezza della neve che non avrebbe mai visto, non quella volta, almeno.