domenica 20 novembre 2016

BELLISSIMI PERDENTI*

A Leonard Cohen


Sono pronto, mio signore-
fu questo il tuo ultimo verso
dalla perfezione rotonda.
Forse ti togliesti per un attimo il cappello
guardandoti indietro
e i mercanti di bugie
i paradossi lineari
i muscoli della debolezza
si contrassero, si nascosero tremanti
come sempre
come mai.

Ti immagino rimetterti il cappello
mentre il coro dalla Torre-
Hineni Hineni- cantava.

Sono pronto, mio signore-
dicesti senza più girarti
con lo sguardo immerso nella palude del silenzio
ma noi non eravamo pronti.
noi non siamo pronti,
Leonard,
ad amare tutte le Marianne del mondo
a seguire tutte le Marianne del mondo
a perdonare tutte le Marianne del mondo.
Ci lasciasti
né pescatori, né buddha
rimaniamo a masticare la tua voce dorata
la bellezza del distacco.
Ci lasciasti con occhi adoranti
i nostri occhi come preghiere
non tornarono più a noi stessi
e sono giorni cattivi
di errori
debolezza dei gesti
di giovinezza disorientata
di silenzi che abbiamo tradito
di fallimenti con cui non abbiamo mai
                       imparato a fare l’amore

Solo la poesia è restata
e nella nebbia di novembre allunga i suoi rami
come mani lascive
come bellissimi peccati originali
accarezzando le rughe nasciture
i fallimenti stratificati
i trucchi mai usati
accarezza le viscere e le mani titubanti
Solo la poesia è rimasta, senza te.
Forse è questo che hai voluto dirci,
Hineni Hineni
Noi, tuoi nudi perdenti bellissimi
con occhi liquefatti in inutili preghiere
siamo rimasti qui

e solo la poesia ci seguirà.




* da Beautiful Losers, titolo di un romanzo di L, Cohen

sabato 12 novembre 2016

CRISI DI NERVI

                                     " Involontariamente verso queste tristi rive, mi attira una forza ignota,
cantava lo studente di medicina"- Anton Cechov

Era il 31 dicembre e camminavo in centro a Reggio Emilia, sotto un sole quanto mai inappropriato. Giò e Alice discorrevano di cose, sì cose e nient'altro. Io seguivo la linea dei marciapiedi e di tanto in tanto canticchiavo qualche verso- tutta la situazione mi rimandava a quel racconto di Anton Cechov, "Crisi di nervi[1]".
Mi chiamo Charlie e sono uno studente di legge. Superflua informazione. Riconosco la mia goffaggine così mi ritiro lungo la linea del marciapiede a mettere alla prova la mia capacità di equilibrio.
Era una giornata di sole e mi sentivo come Vasil'ev che "commosso guardava gli amici, li ammirava e li invidiava. Come tutto in quegli uomini, seri forti e allegri era equilibrato. Come tutto nelle loro menti era definito e liscio!"
Mentre io sono Charlie, giovane invecchiato studente di legge ed ho una voglia incontenibile di confessarvi che scrivo anche se questo mi riporta ai giorni precedenti a quel 31 dicembre- tutto mi turba oltre mondo- quindi taccio.
Giò ed Alice si scambiarono occhiate piene di significato quando ad un tratto mi staccai da loro andandomi a sedere su una panchina in piazza Fontanesi.
"Sei sicuro di stare bene Charlie?"
"Certo"- in mente mi venne l'immagine di quel cucciolo di labrador che tengo incorniciata sulla scrivania- mi toccai la faccia, era ancora al suo posto ma non la sentivo.
"Vuoi che ti lasciamo da solo?"
"Vuoi che resti con te? Vuoi?"- disse Alice col suo vitale ma irritante senso dell'altruismo. Umanità! Umanità! Io in quel racconto di Cechov non sarei stato di certo l'uomo con il talento umanitario.
"No, andate. Ci rivediamo stasera"
Se ne andarono bisbigliando, terrore nei loro occhi, indifferenza nei miei, perché quella crisi di nervi stava per svanire- lo sentivo che era ora- e mi sarei sentito più solo di prima, più stabile di prima, più forte di prima.
Oh orrore! Sentii il vento fischiare lungo i fiumi-dolorosi canti d'addio- e guardai in alto; vecchi rami di alberi come sporchi capelli di streghe venivano piano piano inghiottiti dalla nebbia. Avrei ancora dovuto sopportare l'ennesimo crepuscolo inventando parole immobili seduto su una fredda panchina?
                      
"Nella propria selvaggia natura ci si ricrea nel miglior modo della propria non natura, della propria spiritualità"[2]

Oh, al diavolo quel senza-dio di Nietzsche. Elessi mio Signore quel tizio con i baffi e la pelliccia che passava in bici e assomigliava ad E.A Poe e seguitai speranzoso ad ascoltare musica natalizia in chiave  jazz- una prostituta vestita da gran dama.
Tutta questa storia della crisi iniziò quel giorno in cui incontrai Jolene...oh Jolene e la sua voce così profonda e rassicurante (ho bisogno di un altro sorso di whisky) Jolene e la sua giovinezza -la sua incoscienza confortante.
La incontrai in una libreria di libri usati. Ma finì. Certo che finì.
Quel giorno mi ritrovai in quella libreria per trovare materiale per un articolo  che sarebbe dovuto uscire sul giornale studentesco. Gli ultimi raggi del sole, quelli più intensi, le coprivano il volto corrucciato mentre cercava tra gli scaffali.
Annusavo avidamente il profumi di libri vecchi e mi chiedevo quando chiudeva quel posto- dimenticandomi di quei luoghi senza aperture, né chiusure, crudeli come l'immaginazione e perfetti come il volto di d-o, luoghi che esistono ovunque ma non sono da nessuna parte- gli Attimi, luoghi della mente dove noi ci buttiamo a capofitto dimenticandoci di lasciare fuori i nostri ingombranti sentimentalismi- così vennero profanati i mari del nord.
Mi allungò un volume di Ginsberg dentro il quale aveva messo un fogliettino - lessi parole che credevo fossero "delle menti distrutte dalla pazzia"- e m'innamorai di lei, del suo corpo che immaginavo nelle lunghe e desolate sere trascorse in qualche squallida birreria, attendendo di rivederla ancora, attendendo una sua parola.
E un giorno Jolene tornò, riapparve con labbra terrificanti e con dita che suonarono i genitali della mia mente impazzita e vidi fanciulle gettarsi dai ponti, d'oro vestite in quella notte in cui lei continuava a dirmi "ti Amo" e non sapeva nulla di me, ma potevo io mandarla via? Era tutto ciò che avevo segretamente sognato.
Mi legò a se senza fare un gesto- così nella speranza di affondare il cuore unghioso nella sua pelle, la portavo ovunque con me. E  lei voleva la "devastazione".
Oh Jolene, cosa avrei dato per stare seduto in un angolo osservandoti scrivere con quelle tue mani come un grilli ubriachi sulle spighe d'oro nelle notti d'agosto.
Ma lei non comprese mai quel mio bisogno di dondolare per strade al ritmo di jazz. Intere notti tremavo più per il suo disprezzo che per gli incubi. Ma io ero un bruto, un "uomo ridicolo[3]” che credeva nella comunione delle menti e nella fiducia. Al diavolo! Volevo anch'io la devastazione, ma la poesia? Può un uomo lottare contro la propria natura?
La portai ovunque, ovunque potessi esserci anch'io, dietro le quinte dei miei spettacoli di teatro ma lei si vergognava della mia inerzia, la portavo nelle aule universitarie ma lei si vergognava del mio scetticismo, la portavo nelle feste private ma lei si vergognava della mia goffaggine- così mi rifugiavo in bagno con una bottiglia di vino dimenticandola là fuori.
Volevo scrivere per lei, ma a lei questo non bastava. Un meccanismo perverso sembrò perfezionarsi di giorno in giorno finché gli Zoa[4] vinsero sulla mia volontà e diventai uno fuori dall'Eterno, uno indifferente.
Oh Jolene, il mondo condannò me e te ed ogni nostra promessa alla ridicolaggine.
E ora sei spettro: elementi dell'ideale che hanno cessato di essere in comunione con il Divino.(definizione inaffidabile)
Quante notti ho passato da ubriaco a parlare con i personaggi dei quadri di Hopper, li ho odiati sai, li aggredivo ogni volta che assaltava i miei occhi quella loro indifferenza alla condizione di solitudine universale. Col tempo arrivarono Lucia e Paola e Elisabetta, trascinandomi nelle loro vite prive di intensità, prive di complicazioni. M'illusi di poterti dimenticare, mi convinsi di sentirmi bene nell'oceano dell'anonimato. Mi convinsi...fino a quando compresi che non ero fatto per l'oceano- la grandezza mi ha sempre spaventato.
Tutto ciò che avevo era una certezza profonda, come profonda era l'angoscia che generava: le nostre notti passate a sussurrarci e a scrivere sciocchezze più sante di tutti i santi libri del mondo, tutte quelle notti...Tuttora pensandoci mi sento come quel pazzo che cammina per la strada e grida di aver visto il paradiso, un tizio lo ferma e gli dice che si sbaglia, che non esiste il paradiso ma il pazzo continua ad affermare che esiste, allora gli si chiede di provarlo così lui inizia un pianto angoscioso e disperato perché non può provarlo, ma lui sa che esiste, lui lo sa!
Oh Jolene, io avrei voluto toccarti in eterno ma come può un uomo salvarsi dalla vita se non vivendola? Ed ecco che scioccamente parlo a te come se tu fossi presente ancora, come se tu fossi il miracolo della mia mente, tutta creata da me per dare vita a quel regno dei poeti tanto bramato nelle fantasie adolescenziali.
Merda a me! Già, rido ed ascolto Miles Davis e nemmeno merito l'armonia disordinata del jazz, io che tra i minacciosi rami degli alberi vedo il suo volto- Jolene imbronciata nemmeno mi guarda, nemmeno si cura di me, mi ama tacendo nella sua benedetta testardaggine e scrive parole che "pensavo potesse scrivere solo dio"- così mi disse un giorno quando le feci leggere uno dei miei racconti e dopo la lascia andare, ma non le dissi come piansi.
Molto spesso ci accusavamo a vicenda di non amarci, non ci furono lotte più inutili nella storia dell'umanità. Tutto quello mi rimanda ad un passo di Kerouac che dice: "Lo Zen è quando la luna mi segue verso nord e ti segue verso sud. La luna vera chi sta seguendo?" L'amore era vera ovunque fuori dai nostri dubbi.
Mi chiamo Charlie e studio legge. Certe volte ho bisogno di fissarmi allo specchio e dirmelo. Ho vissuto tanto a lungo fuori dalla mia vita che ora faccio fatica a credere di averne una. Io ho decine di taccuini e quadernetti  pieni di scarabocchi che disconosco, e di notte, a volte, sogno il pubblico che assiste ai miei spettacoli di teatro colpirmi con frutta andata a male, così io prendo due prugne e corro a costruire Frosty, l'uomo di neve, poi mi metto seduto vicino a lui e piango perché pare cieco con quelle due prugne al posto degli occhi. Ma né le mie fantasie, né la mia coscienza riflettono la verità delle cose- mi chiedo cosa può essere in grado di rifletterla- così mi viene in mente Jolene che mi trascina su un letto in una camera spoglia e grigia in un pomeriggio qualsiasi...Stop!
Sono Charlie e studio legge- tutto quello che avrei voluto fare non è perseguibile se non fuori dal tempo. Alla finestra del cranio si affacciano clown con sorrisi mostruosi. Ad ogni incubo volevo chiamare lei, raccontarle tutta la quotidianità per farle capire che esistevo, che la pioggia mi bagnava come tutti e che no, non mi bastavo da solo. Ma se certe notti mi trascinavo in degradanti locali o mi isolavo nella stanza a bere vino scadente leggendo tutta la notte, era perché il  mio animo vigliacco temeva la spontaneità, quel suo odioso essere Jolene all'infinito. Forse la colpa era tutta del mio egocentrismo?
Sono Charlie e  sono uno studente di legge...hum, no, ero debole e avrei continuato ad esserlo finché non avessi trovato un posto per me- sospiro- un posto che però non sto cercando, in verità non voglio trovarlo. Ma c'era una mente nella quale mi sentivo vivo, Jolene forse non lo sapeva, così certe notti mi mandava via. Chissà se lo avrebbe fatto se avesse saputo che in quei momenti mi sentivo il più sfortunato dei barboni, un vagabondo che si trascina nell'universo-bolla con il peso di troppe parole non esplose. Ma certe volte ero io a lasciarla fuori con le sue innocenti promesse sulle labbra, dispettoso come quel bambino che nella sala lettura della biblioteca un giorno interrompeva la narratrice a ogni frase, lamentandosi e sbuffando. Stizzito incrociava le braccia, incredulo protestava, interrompeva, rovinava i finali.
"Vai al diavolo Charlie!" ricordo di averlo sentito tante volte ed in quel vai al diavolo trovavo tutta la saggezza del mio zarathustra. Lei era la mia morale, la mia devastazione, la mia delicatezza, il mio Mississippi arrabbiato, il mio jazz indifferente, il mio vino rosso.
Jolene studiava con il fervore delle persone equilibrate, io con l'ansia dei pessimisti- tutta la mia razionalità e la mia conoscenza sprofondava nell'impeto del momento- ero il mio peggiore incubo e negli ultimi tempi pensai fosse tutta colpa sua! Lei m'insegnò ad abbandonare l'autocontrollo così permettevo al mio animo ogni inclinazione a grottesche esagerazioni. Affermavo il contrario del contrario senza mai rinnegare nulla, correvo avanti avanti avanti- per lungo tempo lei corse con me, finché un giorno smise di inseguirmi.
Sono Charlie e sono uno studente di legge. Forse il riassunto di questo sogno sarà l’arringa più sincera che mai riuscirò a fare in vita.









[1] romanzo di Anton Cechov
[2] Da Crepuscolo degli Idoli di Nitzsche
[3] Dal racconto Sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij
[4] Il mito ei quattro Zoa come inteso da Blake nelle Visioni . La caduta dell’uomo eterno è dovuta alla ribellione dei quattro Zoa che sono: l’intelletto (urizen), l’emozione (luvah), la sensazione (tharmas) l’immaginazione (urthona).

martedì 1 novembre 2016

La metafisica dell'Appartenenza

Quando pensavo a Charlie pensavo all'Indicibile. Pensavo a quell'esempio preferito della prof. di Sociologia al liceo- il rumore di un albero che cade in un bosco lontano.
Quale rumore fatato, il suo viso contorcersi in un sorriso! Era un po' come le albe di Parigi; quanto suona strano, le albe di Parigi! Nell'immaginario collettivo Parigi è fatta di luci, strade, bancarelle, musei, fiume, quartieri, ma mai nessuno pensa all'alba di Parigi. Io dicevo, mi pare di vedere d-o!
Erano limpide, una di quelle cose incontaminate che mai pensavi di associare alla città. Le godevo ogni volta che tornavo a casa con la prima metro e credetemi, era come sentire il bisbiglio secolare dei segreti più intimi della città infrangersi nel petto, era come sfogliare i diari di tutti i poeti del passato-così provavo un profondo rammarico, per quando ne sarei stata lontana e avrei lottato per trovare qualche parola che almeno ne punteggiasse una scarna immagine nell'aria.

Così, una volta arrivata nel monolocale dove abitavo, mettevo addosso quella sgualcita maglietta viola che Charlie aveva lasciato da me, e provavo lo stesso rammarico. Specchiandomi scorgevo tutta buffa la Metafisica dell'Appartenenza. E sapevo che come delle albe di Parigi, non avrei mai potuto farne parola!
Allora  m'infilavo nel letto.
Provare a dimenticare- come se non fosse un urlo, lo scontro epico tra la coscienza e l'immagine mancante, un urlo che squarcia l'elettrico labirinto del giorno moderno.

E poi mi svegliavo di nuovo solo quando le nuvole abbandonavano la trasparenza- un Noi fuori dal cielo- e si gonfiavano di blu, rossi i contorni.
Davanti allo specchio la stessa sagoma della Metafisica dell'Appartenenza, solo un po' più spettinata, solo un po' più rauca.
Indossavo gli abiti della cerimonia notturna- come in un eterno ritorno-in attesa del satori della prossima alba- volto di Charlie- condanna e rigenerazione.

Tutte le notti iniziavano più o meno così: "E lui, cosa vede lui nello specchio"?