martedì 1 novembre 2016

La metafisica dell'Appartenenza

Quando pensavo a Charlie pensavo all'Indicibile. Pensavo a quell'esempio preferito della prof. di Sociologia al liceo- il rumore di un albero che cade in un bosco lontano.
Quale rumore fatato, il suo viso contorcersi in un sorriso! Era un po' come le albe di Parigi; quanto suona strano, le albe di Parigi! Nell'immaginario collettivo Parigi è fatta di luci, strade, bancarelle, musei, fiume, quartieri, ma mai nessuno pensa all'alba di Parigi. Io dicevo, mi pare di vedere d-o!
Erano limpide, una di quelle cose incontaminate che mai pensavi di associare alla città. Le godevo ogni volta che tornavo a casa con la prima metro e credetemi, era come sentire il bisbiglio secolare dei segreti più intimi della città infrangersi nel petto, era come sfogliare i diari di tutti i poeti del passato-così provavo un profondo rammarico, per quando ne sarei stata lontana e avrei lottato per trovare qualche parola che almeno ne punteggiasse una scarna immagine nell'aria.

Così, una volta arrivata nel monolocale dove abitavo, mettevo addosso quella sgualcita maglietta viola che Charlie aveva lasciato da me, e provavo lo stesso rammarico. Specchiandomi scorgevo tutta buffa la Metafisica dell'Appartenenza. E sapevo che come delle albe di Parigi, non avrei mai potuto farne parola!
Allora  m'infilavo nel letto.
Provare a dimenticare- come se non fosse un urlo, lo scontro epico tra la coscienza e l'immagine mancante, un urlo che squarcia l'elettrico labirinto del giorno moderno.

E poi mi svegliavo di nuovo solo quando le nuvole abbandonavano la trasparenza- un Noi fuori dal cielo- e si gonfiavano di blu, rossi i contorni.
Davanti allo specchio la stessa sagoma della Metafisica dell'Appartenenza, solo un po' più spettinata, solo un po' più rauca.
Indossavo gli abiti della cerimonia notturna- come in un eterno ritorno-in attesa del satori della prossima alba- volto di Charlie- condanna e rigenerazione.

Tutte le notti iniziavano più o meno così: "E lui, cosa vede lui nello specchio"?