venerdì 23 novembre 2018

OTTOBRE





“Forse Michelangelo sta aspettandomi”- pensò davanti a una vetrina appannata- “alla fine il freddo è arrivato, e io che temevo non arrivasse mai. Un Natale al caldo è simpatico, ma solo se sei in crociera. “
Il bar del cinese all’angolo di Corso Umberto era pieno. Eveline si fermò al di là del semaforo e ci pensò un attimo. L’istinto accese due sentimenti discordanti: senso di colpa ed eccitazione. Il senso di colpa era questa meravigliosa eredità lasciatale dai genitori. Bisogna essere bravi sì, bravi, buoni, gentili, rispettosi, silenziosi…se sei una donna poi! Bisogna studiare, lavorare, non perdere tempo, imparare, progredire ma guai se poi te ne vanti! La poesia tienitela come hobby. Niente complimenti, tutto è dovuto, tutto tranne fare un figlio; se fai un figlio i complimenti te li becchi come se avessi vinto il Nobel! Se vinci il Nobel, invece, giusto due foto ricordo e una cartolina a tema con i più vivissimi complimenti.
Mentre iniziava a sentire male ai denti per il digrignamento involontario, si accorse di essere già seduta dietro al bancone del bar. Tommi, il barista (di cui nessuno sapeva il vero nome) le sorrise mentre serviva Berto. La maggior parte dei presenti erano frequentatori fissi. Su tutti gli odori capeggiava l’acqua di colonia del barbiere.
“Pochi usano ancora l’acqua di colonia?”- pensò. L’acqua di colonia le faceva pensare a suo nonno. Le occasioni in cui l’aveva visto tutto agghindato erano poche. Per tutta la vita non se l’era potuto permettere. Quando alla fine poteva, la giacca sgualcita aderiva così bene alla sua personalità che vi rinunciava volontariamente.
Da tempo riaffioravano tutte queste piccole cose in cui si assomigliavano tanto: agghindarsi non era mai stato nemmeno il suo forte. Recuperava i residui di un fondotinta vecchio di un anno con una forcina per  capelli. Non riteneva necessario cambiarsi d’abito. Ma i cappelli, era gelosa dei suoi cappelli.
“Ultimamente la frenesia di tutti i cambiamenti ci ha portato a dare per scontato molte cose. Ma questa, questa mio dio, mi sento rinata e non vedo l’ora di celebrare la notizia come conviene”- pensò mentre sorseggiava un bicchiere di vino della casa.
“Cos’hai nella tasca del cappotto, signorina?”- chiese Berto, un professore in pensione caduto in disgrazia quando la moglie gli chiese il divorzio dopo 35 anni di matrimonio.
“Odi ed epodi di Orazio.”
“Passa un po’ qui…Tommi, riempi il bicchiere alla ragazza, su, offro io.  <Luce di paesaggi, danze amore, conviti con gli amici e in sottofondo l’affanno del tempo che fugge..nelle Odi e negli Epodi Orazio riverso le tensioni di una vita perennemente agitata dall’inquietudine e dall’insoddisfazione> …cough, hmmm.
“Lo hai letto?”
“No…cough…no. Ma so bene cosa ci trovo dentro, lo so, alla mia età non ho bisogno più di leggere Orazio.”
“Non credo che l’età sia certificazione di saggezza. Sarai mica di quelli che pensano che gli adulti non devono più studiare perché hanno studiato all’università della vita???”
“Ma no, non è quello… Dove sta il tuo maritino?”
“A casa, infatti dovrei sbrigarmi a tornare, l’ho lasciato solo per tutto il giorno.”
“Da solo, mah, magari ci sta bene.”
“Non sono tutti come te, Bertoooo, pazzo solitario” - gridò il proprietario del ristorante La Brocca che era entrato da pochi minuti. Aveva l’abitudine di fermarsi al bar per un aperitivo ogni sera prima di aprire il ristorante. Un’abitudine che sapeva di poesia, per Eveline.
“Non dire cazzate Stefanino, che ne sai tu della pazzia e soprattutto della solitudine…lo sapete”- continuò Berto- “c'è da stare attenti con le parole. In inglese per esempio, ci sono due parole per dire "solitudine": solitude e loneliness. La prima è beatitudine, la seconda un bastardino sotto la pioggia sbranato dalla ferocia del mondo..cough cough grrr” - la tosse lo perseguitava in ogni momento della giornata così consacrava il bancone e tutti i bicchieri con la benedetta saliva di chi non ha più niente da vincere o perdere. Erano solo le 17.30 ma fuori s'era fatto buio. Ogni volta che un cliente entrava o usciva dal bar una nuvola di nebbia si insinuava dalla porta come in un racconto di Edgar Allan Poe.
“Ma il poeta, il poeta miei cari, vive entrambe queste solitudini. Nella beatitudine la sua anima si incastra perfettamente tra le crepe dell'Universo e diventa luce. Nell'inferno della loneliness pare che la sua anima sia il pezzo difettoso nel puzzle del mondo..cough cough cough”- questa volta un attacco più acuto lo fece ingobbire su se stesso con il viso quasi spiaccicato sul bancone.
“Hey Tommi, versamene un altro. Il poeta è un disgraziato, non ha filtri nel bene e nel male. “
Berto nel frattempo era stato circondato da curiosi che più che dai suoi discorsi erano attratti dalla stramberia dell'uomo.
“...ma io mica sono un filosofo, li vedi questi occhi, vedi, questi fanno ciak ciak e fotografano il mondo. Io questo faccio e ti dico, credimi che non c'è mai stato un rapporto più d'odio che tra poeta e madre. Prendi Rimbaud...o quello Pasolini o Ginsberg o..hmmm, sì, insomma..tanto odio. Ché il poeta non sa mentire e trascende i rapporti di sangue quando si tratta di giudicare il mondo secondo coscienza. Ma anche tanto amore; ché il poeta non sa odiare, tra solitude e loneliness impazzisce nel dilemma delle sue mille anime.”
“Bertooooo” - gridò il barbiere di Piazza Casotti seduto qualche sgabello più giù- “tès bròntlon, una birra volevo godermi dopo il lavoro ma tu, ah ch' ét gnés 'n antcōr!”
Tutti risero, anche Berto, ma la sua era una risata amara.
Eccolo, lo vedete, il poeta annoia, deprime. E' difficile spalancare l'anima e sposarsi madama loneliness, meglio avanzare come ciechi ed essere felici.
Il piccolo show di Berto attraeva Eveline, le piaceva starlo a sentire. Tra la giacca consumata e la tosse incessante, le faceva pensare al nonno. Nel finto mondo borghese e benpensante dove ero cresciuta, il mondo del "si sa ma non si dice", dove rispettarsi pareva un comandamento del galateo più che un vero sentimento, dove il linguaggio consono nascondeva mille indecorosi rancori, il nonno e la sua bocca d'alcool e verità era una boccata d'aria fresca; lui e la sua rabbia di chi non ha mai vinto: lui e l'odio per l'ipocrisia. Lui e la voglia di celebrare la vita, ogni volta fosse possibile- lo ricordava ballare.
Eveline pagò Tommi e se ne uscì discretamente. Berto, il ristoratore, il barbiere e tutti i presenti avevano spostato il discorso sul lavoro. Avrebbero litigato per una mezz’oretta sulla questione poi il bar si sarebbe svuotato e ognuno sarebbe andato per la propria strada per poi ritrovarsi l’indomani più vecchi e immutati di prima.
“Michelangelo salterà di gioia, era così ansioso di sapere come sarebbe andata. Dobbiamo festeggiare, dobbiamo assolutamente festeggiare, celebrare l’attimo e il futuro”- pensava Eveline mentre si avvicinava alla porta.
“Tesoro….”
“Sono in cucina Eveline…”
Eveline entrò in cucina e vide Michelangelo piegato sotto il lavandino.
“Hey…” e attese, ferma sulla porta, di incrociare il suo sguardo mentre le mani già iniziavano a sudarle un po’.
“Questo stupido lavandino perde, è tutto il pomeriggio che ci sto impazzendo ma non capisco dove sta il problema, volevo farti trovare la cena pronta ma guarda qua…”
“Non vuoi sapere come è andata?”- tali domande non avevano più senso per Eveline, erano segno di un fallimento mai recuperabile, ma la meravigliosa eredità genitoriale era una zavorra difficile da scaricare.
“Ah, cavoli, sì, cavoli cosa ti hanno detto?”- lui corse verso di lei e le prese le mani.
“Non è tumore. Sono sana. Yuppi!”- lei scostò le mani nel modo più rispettoso possibile- “scendo a buttare la spazzatura, questa mattina me la sono dimenticata.”
“Ok, finisco qui e poi ceniamo…hai già molta fame?”
“No, fai con calma”- fece Eveline già sul pianerottolo. Prima di salire si sedette davanti al portone. Sospirò profondamente.
“Spero prepari il pollo, il pollo croccante, sì sarebbe proprio perfetto!”- pensò.  Il giardino era pieno di foglie rosse e gialle. Non marcivano, erano cadute da settimane ma non marcivano.

Come se cercassero di celebrare un’abitudine ormai scomparsa, l’abitudine alla vita. 

domenica 11 novembre 2018

DOLCEZZA DI UNA VITA DA VINTI




Sto lottando con signora Solitudine
dicesti
ed è una guerra come un’altra
mai fiera
mai giusta, né equa.
Sto lottando con signora Solitudine
dalla mia ho le bugie sommerse e qualche verso affannato
lei non si ferma, nemmeno per criticare
se ne va, sempre un passo avanti.
Sto lottando con signora Solitudine
lei viaggia leggera
io, un Rimbaud zoppo in un deserto di sordi
unghie infilzate negli idealismi giovanili,
non mollo la presa
“pregate per lui” sussurrano gli sciacalli
mentre gli amori incorporali
i tradimenti dei padri
la buddità
scorrono deformati come giorni sulla roulette
dove non ho perso e non ho vinto.
Nell'ozio mattutino
la morte ha una sensualità rozza
la coscienza vivifica gli errori
la mia signora Solitudine sogghigna dietro l’angolo
come un monaco crudele
la metropoli inghiotte  i folli
le rivoluzioni
gli ideali.
La signora Solitudine pare indichi l’orizzonte:
dolcezza di una vita da vinti.

martedì 11 settembre 2018

SETTEMBRE


Dalla finestra del bagno si sentiva un forte profumo d’incenso. Era Veronica, la vicina del piano di sotto. Se ne stava sempre nel suo cucinotto a fumare. Spesso accendeva dell’incenso. Il profumo si spargeva in tutto il cortile interno. L’ora di pranzo è sempre un’ora desolante, pensò Eveline. Se ne stava seduta sul water a studiare. Era un modo come un altro per crearsi una scappatoia dalla routine casalinga. Lei di casalingo non aveva granché. Questo certe volte la faceva sorridere. Altre volte solo una bottiglia di vino e del sano rimpianto risolvevano la cosa.
D’improvviso una porta sbatté al terzo piano e si sentirono i passi della nuova coppia trasferitasi nel palazzo. Lei era incinta e dimostrava una 40-ina d’anni. Lui sembrava un ragazzino. Qualche giorno prima mentre parlava con Veronica e Matteo sul ballatoio loro erano passati, ma Eveline non fece domande. Non nutriva nessuna curiosità verso la vita degli altri. Questo a volte la preoccupava, a volte la faceva sentire leggera.
“Hai preso le chiavi della bici?”- chiese la donna in fondo alle scale.
“Sì, allora vuoi che ti accompagni oppure no”- fece lui con dolcezza.
“No, cioè se vuoi…”- disse lei.
Eveline sorrise, tipica risposta da donna, pensò.
Appoggiò il libro sulla lavatrice, aprì il rubinetto del lavandino e si sciacquò la faccia.
Mancava ancora molto alle 19.00 e una leggera sensazione di angoscia la prese allo stomaco.
Forse dovrei fotografare ogni angolo del palazzo, pensò. Mi dispiacerà andarmene da questo posto. Prima o poi, certo, doveva capitare, ma mi mancherà.
Si sedette sul divano in sala e cercò di studiare ancora. La sala era spoglia, niente più quadri alle pareti, niente più dischi e soprammobili. La cosa la faceva sentire stranamente bene. Dalla strada arrivava un gran brusìo. Era un settembre caldo, davvero caldo. Questa anomalia ha fatto impazzire la gente, bisbigliò.
Sul tavolino da salotto c’era il segno del bicchiere della sera prima. Riabbassò lo sguardo sul libro. Poi si alzò di scatto e prese uno straccio. Pulì il tavolo.
Non era necessario ma ormai è fatta, disse.
Chissà se lui se lo sarà ricordato, si chiese sospirando. Se se ne ricorderà quando rientra questa sera allora rimango. Se se n’è scordato me ne vado.
Mise su Leonard Cohen ma la musica stonava con il suo stato d’animo. Sentì il bisogno di uscire sul ballatoio e fumarsi una sigaretta. Erano solo le 16.00, di bere non se ne parlava ancora, nossignore.
“Carla, come va?”
“Ciao Eveline, bene tu?”
Carla era una ex insegnante. Da giovane se l’era spassata con il suo compagno e un gruppo di artisti in giro per l’Italia e il mondo. Ora lei continuava a reinventarsi, bevendo troppo e scegliendo relazioni sbagliate. Se arrivo a 60 anni come lei, pensava Eveline, non chiedo di meglio. Carla dava a credere a tutti di vivere come una buddista, il suo atelier  era completamente spoglio, muri bianchi, un divano, un tavolo. Ma Eveline sapeva che nascondeva la televisione dentro l’armadio a muro, sotto un lenzuolo. Questo le rendeva la donna molto più simpatica.
“Vieni, ti vanno due chiacchiere?”-  chiese Carla.
La risposta giusta era no, a Eveline non erano mai piaciute le chiacchiere. Un tempo un vecchio amore le aveva detto che parlava solo per citazioni, che non era mai sincera. Questo l’aveva ferita a tal punto che il suo inconscio aveva deciso di rimuovere ogni citazione che conosceva. L’aveva anche traumatizzata abbastanza da renderla incapace di chiacchierare senza che ci fosse un motivo.
No era la risposta giusta ma tirò su le spalle e fece il giro del ballatoio.
“Michelangelo torna oggi?”- chiese Carla.
“Aha”- fece Eveline sedendosi.
“Va bene tra di voi?”
“Certo, perché non dovrebbe. Quel tuo compagno, invece?”
“Si è calmato, ora la sua famiglia mi impedisce di vederlo ma quando esce dalla clinica di disintossicazione io lo vorrei rivedere. Sai solo perché insomma, solo perché deve sapere che ci sono.”
Lo sa che ci sei, sciocca, pensò Eveline, e che ti potrà ancora sfruttare. Siamo davvero ridicoli quando raccontiamo bugie a noi stessi. Giustificarci è ok, ma non bisogna fare finta di crederci- pensava Eveline mentre Carla continuava a parlare. Aveva già versato due bicchieri di vino rosso.
Ecco non dovrei bere, ma mi giustifico. Non mento, mi giustifico e basta- pensò Eveline.
C’era un tempo in cui i romanzi e le poesie erano la Grundnorm, non ispiratori ma la legge assoluta della sua vita. Voleva che tornasse ad essere così. La vita adulta non era per lei la verità, non aveva mai pensato che potesse esserlo. Spesso dopo una sbronza la coglievano attacchi di panico e finalmente vomitava tutto il suo sdegno per la vita adulta. Poi al mattino rimaneva solo un po’ di mal di testa e come per le persone bipolari, il vago ricordo di una crisi.
“Ora ti devo salutare Carla, ho un bel po’ da fare di là” - salutò la vicina e se ne ritornò nel suo appartamento.
Erano le 18.00, prese la borsa e uscì. La saracinesca del bar sotto casa era alzata per la prima volta. Forse qualche compratore era passato a vederlo. Tutto era rimasto come prima, prima che la barista morisse. Il separé con Marlyn Monroe, il vecchio baule in vetrina con i boccali e le birre artigianali. L’adesivo trasparente con la frase stampata che Michelangelo aveva fatto fare per lei. Un colpo al cuore la fece allontanare a passo spedito verso il parco.
La città e tutto quel baccano le sembravano contro natura. Un settembre così caldo e vivace non se lo ricordava da anni.
Erano le 21.00 quando rientrò. Era facile trovare conoscenti disposti a pagarle da bere. Le sembrava buffo. Non aveva mai fatto pace col suo essere socievole. Lo negava. Ma negare è mentire a se stessi, pensò.
Le luci in sala erano spente. C’era un bigliettino sul tavolo. Lo lesse alla luce del lampione che entrava dalla finestra.
“Scusami, mi sono dimenticato di comprarti il nuovo spazzolino da denti, al ritorno. Me ne sono ricordato solo quando sono entrato in casa. Ho già mangiato in ospedale. Le medicine ok. Ti voglio bene”
Michelangelo dormiva sul divano. Sul tavolino da salotto c’erano una modesta quantità di medicine. Il bicchiere aveva lasciato tanti aloni e i vestiti erano sparsi sul pavimento.
Se l’è ricordato, pensò e dentro di sé sorrise. Non proprio al momento giusto, ma se l’è ricordato. Guardò Michelangelo, poi gli aloni sul tavolino, poi il disordine.
“Al diavolo- disse a bassa voce- se l’è ricordato!” Prese il libro e andò a sedersi sul water. L’incenso di Veronica continuava a bruciare.

domenica 18 febbraio 2018

mercoledì 24 gennaio 2018

IL RE DELLA NON SOLITUDINE

                                                                             (2007)


Tra gli spigoli del giorno avrei voluto,
calciando sassolini tra la folla,
ritrovarlo come si fa con i bambini,
lui che tende la mano come un giuramento
stringendo al petto cieli di declino
papavero piegato o profilo di pagliaccio
- il Re della non solitudine.

Abitante di mille anfratti
gli ruberei i segreti della passione
barbaricamente gli ornerei la fronte
di infiniti sguardi assettati
se solo lui tra le pieghe della notte
tra le curve ed i capricci
si mostrasse all'uscio della mia insonnia.

RETROSPETTIVA

                                                                                             ( 2010 )

Custodiva le mie balbuzie 
alle radici di un albero di cristallo,
io ricamavo le sue sulle dita
alle tempie.

Poi arrivarono puntuali 
le notti degli umani
io imprigionavo i gesti 
in scatole uguali-uguali
lui esplodeva in muta rabbia epilettica;
quel modo, quasi sacro- d'amare
per cui il mondo ci additava- buffoni!
e spiava dietro tendine ricamate
le ferite che nessun mattino 
poteva illuminare.

Siamo caduti in frantumi.

Estirpata anche l'ultima parola
fioriscono ora lenti sulla fronte
prolissi segni di solitudine
e vuoto autocelebrativo.