lunedì 9 dicembre 2019

JOLENE




        "Involontariamente verso queste tristi rive, mi attira una forza ignota-                                                                     cantava lo studente di medicina"- Anton Cechov

Era il 31 dicembre e camminavo lungo le strade illuminate di Reggio Emilia, sotto un sole quanto mai inappropriato. Giovanni e Alice discorrevano di cose, sì cose e nient'altro. Io seguivo la linea del marciapiede e di tanto in tanto canticchiavo qualche verso- tutta la situazione mi rimandava a quel racconto di Anton Cechov, "Crisi di nervi".
Mi chiamo Paul e sono uno studente di legge. Superflua informazione. Riconosco la mia goffaggine così mi ritiro lungo la linea del marciapiede a mettere alla prova la mia capacità di equilibrio.
Era una giornata di sole e mi sentivo come Vasil'ev che "commosso guardava gli amici, li ammirava e li invidiava. Come tutto in quegli uomini, seri forti e allegri era equilibrato. Come tutto nelle loro menti era definito e liscio!"
Mentre io sono Paul, giovane invecchiato studente di legge e ho una voglia incontenibile di confessarvi che scrivo anche se questo mi riporta ai giorni precedenti a quel 31 dicembre- tutto mi turba oltre mondo- quindi taccio.
Giovanni e Alice si scambiarono occhiate piene di significato quando a un tratto mi staccai da loro andandomi a sedere su una panchina in piazza Fontanesi.
"Sei sicuro di stare bene Paul?"
"Certo"- in mente mi venne l'immagine di quel cucciolo di labrador che tengo incorniciata sulla scrivania- mi toccai la faccia, era ancora al suo posto ma non la sentivo.
"Vuoi che ti lasciamo da solo?"
"Vuoi che resti con te? Vuoi?"- disse Alice col suo vitale ma irritante senso dell'altruismo.
Umanità! Umanità!
"No, andate. Ci rivediamo stasera"
Se ne andarono bisbigliando, terrore nei loro occhi, indifferenza nei miei, perché quella crisi di nervi stava per svanire- lo sentivo che era ora- e mi sarei ritrovato più solo di prima, più stabile di prima, più forte di prima.
Oh orrore! Sentii il vento fischiare lungo i fiumi -dolorosi canti d'addio- e guardai in alto; vecchi rami di alberi come sporchi capelli di streghe venivano piano piano inghiottiti dalla nebbia. Avrei ancora dovuto sopportare l'ennesimo crepuscolo inventando parole immobili seduto su una fredda panchina?
                      "Nella propria selvaggia natura ci si ricrea nel miglior modo della propria non natura, della propria spiritualità"
Oh, al diavolo quel senza-dio di Nietzsche. Elessi mio Signore quel tizio con i baffi e la pelliccia che passava in bici e assomigliava a E.A Poe e seguitai speranzoso ad ascoltare musica natalizia in chiave  jazz- una prostituta vestita da gran dama.
Tutta questa storia della crisi iniziò quel giorno in cui incontrai Jolene...oh Jolene e la sua voce così profonda e rassicurante (ho bisogno di un altro sorso di whisky) Jolene e la sua giovinezza -la sua confortante incoscienza.
La incontrai in una libreria di libri usati. Ma finì. Certo che finì.
Quel giorno, in quella libreria cercavo materiale per un articolo  che sarebbe dovuto uscire sul giornale studentesco. Gli ultimi raggi del sole, quelli più intensi, le coprivano il volto corrucciato mentre cercava tra gli scaffali.
Annusavo avidamente il profumi di libri vecchi e mi chiedevo quando chiudeva quel posto- dimenticandomi di quei luoghi senza aperture, né chiusure, crudeli come l'immaginazione e perfetti come il volto di d-o, luoghi che esistono ovunque ma non sono da nessuna parte: gli Attimi, luoghi della mente dove noi ci buttiamo a capofitto dimenticandoci di lasciare fuori i nostri ingombranti sentimentalismi- così vennero profanati i mari del nord.
Mi allungò un volume di Ginsberg dentro il quale aveva messo un fogliettino - lessi parole che credevo fossero "delle menti distrutte dalla pazzia"- e m'innamorai di lei, del suo corpo che immaginavo nelle lunghe e desolate sere trascorse in qualche squallida birreria, attendendo di rivederla ancora, attendendo una sua parola.
E un giorno Jolene tornò, riapparve con labbra terrificanti e con dita che suonarono i genitali della mia mente impazzita e vidi fanciulle gettarsi dai ponti, d'oro vestite, in quella notte in cui lei continuava a dirmi "ti amo", senza sapere nulla di me, ma potevo io mandarla via?! Era tutto ciò che avevo segretamente sognato.
Mi legò a se senza fare un gesto- così nella speranza di affondare il cuore unghioso nella sua pelle, la portavo ovunque con me.
Ma lei non comprese mai quel mio bisogno di dondolare per strade al ritmo di jazz. Intere notti tremavo più per il suo disprezzo che per gli incubi. Oh Jolene, cosa avrei dato per stare seduto in un angolo osservandoti scrivere con quelle tue mani come grilli ubriachi sulle spighe d'oro nelle notti d'agosto.
La portai ovunque, ovunque potessi esserci anch'io, dietro le quinte dei miei spettacoli di teatro ma lei si vergognava della mia inerzia, la portavo nelle aule universitarie ma lei si vergognava del mio scetticismo, la portavo nelle feste private ma lei si vergognava della mia goffaggine così mi rifugiavo in bagno con una bottiglia di vino dimenticandola fuori.
Volevo scrivere per lei, ma a lei questo non bastava. Un meccanismo perverso sembrò perfezionarsi di giorno in giorno finché gli Zoa* vinsero sulla mia volontà e diventai uno fuori dall'Eterno, uno indifferente.
Oh Jolene, il mondo condannò ogni nostra promessa alla ridicolaggine.
E ora sei spettro: elementi dell'ideale che hanno cessato di essere in comunione con il Divino (definizione inaffidabile).
Quante notti ho passato da ubriaco a parlare con i personaggi dei quadri di Hopper, li ho odiati sai, li aggredivo ogni volta che assaltava i miei occhi quella loro indifferenza alla condizione di solitudine universale. E non potevo chiamarti. Come biasimarmi, m'immaginavo la scena, un orgoglioso peccatore privo di talento e di morale che chiede a Gesù di diventare il suo compagno di merende...era più semplice odiare i personaggi di Hopper.
Beatrice e Paola e poi Rita…così mi trascinarono nelle loro vite prive di intensità, prive di complicazioni. Così m'illusi di poterti dimenticare e una volta fuggito dall'acquario soffocante della nostra unicità mi convinsi di sentirmi bene nell'oceano dell'anonimato. Mi convinsi...fino a che compresi che non ero fatto per l'oceano- la grandezza mi ha sempre spaventato.
Tutto ciò che avevo era una certezza profonda, come profonda era l'angoscia che generava. Quelle notti a sussurrarci parole, tutte quelle notti a scrivere sciocchezze più sante di tutti i santi libri del mondo,  tutte quelle notti...oh che angoscia- come quel pazzo che cammina per la strada e grida di aver visto il paradiso, un tizio lo ferma e gli dice che si sbaglia, che non esiste il paradiso ma il pazzo continua ad affermare che esiste, allora gli si chiede di provarlo così lui inizia un pianto angoscioso e disperato perché non può provarlo, ma lui sa che esiste, lui lo sa!
Oh Jolene, io avrei voluto toccarti in eterno ma come può un uomo salvarsi dalla vita se non vivendola? Se il tempo è la copia dell'Eternità°, beh il nostro tempo era una brutta copia indecifrabile- e tu sai della desolazione del crepuscolo- ed ecco che scioccamente parlo a te come se tu fossi presente ancora, come se tu fossi il miracolo della mia mente, tutta creata da me per dare vita a quel regno dei poeti tanto bramato nelle fantasie adolescenziali.
Merda a me! Io che tra i minacciosi rami degli alberi vedo il suo volto- Jolene imbronciata nemmeno mi guarda, nemmeno si cura di me.
Molto spesso ci accusavamo a vicenda di non amarci e non ci furono lotte più inutili nella storia dell'umanità. Tutto quello mi rimanda a un passo di Kerouac che dice:
"Lo Zen è quando la Luna mi segue verso nord e ti segue verso sud.
La Luna vera chi sta seguendo?"
L'amore era vera ovunque fuori dai nostri dubbi, ma non ci fu possibile capirlo così lei soffrì per la mia indifferenza e io per la sua testardaggine mentre ci bastava abbandonare le menti.
Mi chiamo Paul e studio legge. Certe volte ho bisogno di fissarmi allo specchio e dirmelo. Ho vissuto tanto a lungo fuori dalla mia vita che ora faccio fatica a credere di averne una. Io ho decine di taccuini e quadernetti pieni di scarabocchi che disconosco e di notte, a volte, sogno il pubblico che assiste ai miei spettacoli di teatro colpirmi con frutta andata a male, così io prendo due prugne e corro a costruire Frosty, l'uomo di neve, poi mi metto seduto vicino e piango perché pare cieco con quelle due prugne al posto degli occhi!
Ma né le mie fantasie, né la mia coscienza riflettono la verità delle cose- mi chiedo cosa può essere in grado di rifletterla- così mi viene in mente Jolene che mi trascina su un letto in una camera spoglia e grigia in un pomeriggio qualsiasi...Stop!
Sono Paul e studio legge- tutto quello che avrei voluto fare non è perseguibile se non fuori dal tempo. Alla finestra del cranio si affacciano clown con sorrisi mostruosi. Ad ogni incubo volevo chiamare lei. Avrei voluto raccontarle come una notte rientrando in camera dopo una passeggiata sotto la pioggia avevo sfidato il disordine della stanza mettendomi a dormire con i capelli bagnati. Tutto questo per farle capire che c'era l'aria che spostavo e la pioggia che mi bagnava e certi occhi come quelli di Gil che scrutavano penetrando nel profondo delle mie contraddizioni e tutto ciò dimostrava che esistevo, esistevo per lei, per Jolene.
Ma se certe notti mi trascinavo in degradanti birrerie o mi isolavo nella stanza a bere vino da 99 cent o leggevo libri impegnativi(?)  era solo perché il  mio animo vigliacco temeva la spontaneità, quel suo odioso essere Jolene all'infinito, quella sua saggezza così ben camuffata. Così osservavo la cornice con la foto del cucciolo di labrador sulla mia scrivania e giravo tra le dita una penna, compiacendomi di quel vuoto perpetuato istericamente pomeriggio dopo pomeriggio. Forse la colpa era tutta del mio egocentrismo?
Sono Paul e  sono uno studente di legge...hum, no, era solo che ogni mia condizione affermata stava ad indicare una non-condizione. Ero debole e avrei continuato ad esserlo finché non avessi trovato un posto per me- sospiravo- un posto che però non stavo cercando, in verità non volevo trovarlo. Ma c'era una mente nella quale mi sentivo vivo, Jolene forse non lo sapeva, così certe notti mi mandava via. Chissà se lo avrebbe fatto se avesse saputo che in quei momenti mi sentivo il più sfortunato dei barboni, un vagabondo che si trascina nell'universo-bolla con il peso di troppe parole non esplose. Ma certe volte ero io a lasciarla fuori con le sue innocenti promesse sulle labbra, dispettoso come quel bambino che nella sala lettura della biblioteca un giorno interrompeva la narratrice a ogni frase, lamentandosi e sbuffando. Stizzito incrociava le braccia, incredulo protestava, interrompeva, rovinava i finali.
"Vai al diavolo Paul!" ricordo di averlo sentito tante volte e in quel vai al diavolo trovavo tutta la saggezza del mio Zarathustra. Lei era la mia morale, la mia devastazione, la mia delicatezza, il mio Mississipi arrabbiato, il mio jazz indifferente, il mio vino rosso, la mia nebbia invisibile. Ma lei stava diventando grande ed io vecchio e lei sarebbe diventata sempre più grande ed io nemmeno tanto vecchio. Jolene studiava con il fervore delle persone equilibrate, io con l'ansia dei pessimisti- tutta la mia razionalità e la mia conoscenza sprofondava nell'impeto del momento- ero il mio peggiore incubo e negli ultimi tempi pensai fosse tutta colpa sua! Lei m'insegnò ad abbandonare l'autocontrollo e io permisi al mio animo ogni inclinazione a grottesche esagerazioni. Così affermavo il contrario del contrario senza mai rinnegare nulla, correvo avanti avanti avanti- certe volte lei corse con me, finché ne valse la pena o poco più.





* Il mito dei quattro Zoa, come inteso da Blake nelle Visioni. La caduta dell'uomo eterno è dovuta alla ribellione dei quattro Zoa che sono: l'intelletto (urizen) l'emozione (luvah) la sensazione (tharmas) l'immaginazione (urthona)
° Così come inteso da Platone

domenica 1 dicembre 2019

LA PUREZZA DELLA NEVE



- “Andrà tutto bene, devo solo cercare di non morire assiderato” - pensò Charlie mentre il treno pareva arrancasse nel buoi della notte, più assonnato dei passeggeri che gli dormivano in pancia.
Fece di nuovo il suo numero ma dall’altra parte rispondeva sempre la segreteria telefonica. Il numero che avete cercato può essere momentaneamente….
“ Sì sì irraggiungibile o spento. Ho capito. Ma non ti stanchi mai di dire sempre le stesse cose?!” – inveì contro la segreteria a bassa voce-  “d’altronde me lo merito. Ma che mi aspettavo! Se ne esco vivo mi autopunisco. Mi guardo tutto il palinsesto di rete quattro per un mese intero.”
Il treno Lecce Milano delle 22.45 era quasi vuoto. Charlie aveva un rapporto complicato con i treni, li amava, finché non ricordava il viaggio del ritorno, e lui ritornava sempre, ogni volta da dove era partito.
“Non ho il cuore di tenerti sveglia quando domani hai un esame, riccioli d’oro. Ora vai a dormire, o a ripetere..insomma, sì adesso attacco…”
“Qui ha nevicato, avrei voluto ci fossi, saremmo stati lì seduti, senza dire una parola a guardare la neve” – gli aveva risposto Eveline, qualche ora prima. Charlie aveva sospirato profondamente e si era morso una mano dall’altro capo del telefono, senza riuscire a dire altro che un:
“Lo so riccioli d’oro. Lo so.”
“Prima di addormentarmi fisserò la palla di cristallo. Tu amami..”
“Oh cristo, ora devo attaccare” - aveva detto lui. Era corso in bagno e si era fissato allo specchio per qualche minuto. Certe persone vivono in una dimensione puramente sentimentale e quando la realtà sottrae a questa dimensione anche l’ultimo brandello di materiale..beh ecco, si direbbe che “sbroccano”. Scongiurato l’ennesimo attacco di panico era salito sul terrazzo e aveva fumato 4 o 5 sigarette mentre la Luna faceva la disinteressata.
Charlie aveva venti due anni. Una cultura personale che lo faceva apparire strambo davanti ai suoi coetanei. Dei lineamenti scuri e fieri. Una chioma bellissima. Un’acutezza spirituale che lo faceva apparire uno stregone e tanta, tanta sociopatia. Avrebbe potuto fare innamorare di lui chiunque volesse ma aveva fatto innamorare Eveline. Lei aveva una chioma riccioluta. Beveva tanti caffè e di notte non dormiva mai. Avrebbe potuto fare innamorare chiunque volesse ma questa è un’altra storia.
“Guarda, hey Charlie, guarda…”- aveva detto lei durante una video chiamata un anno prima - “Ho comprato questa cosa, di vetro. Va a batterie e la palla di cristallo si illumina.”
La “cosa” era una cineseria di cattivo gusto. Una palla di vetro soffiato con all’interno i tre protagonisti dell’avvento. Insomma, un presepe che si illuminava.
“Prima di conoscerti odiavo il Natale ma ora…”
Quella palla di cristallo aveva perso ogni valenza religiosa e i due avevano riversato sulla “cosa” un significato tutto loro.
Sul terrazzo tirava un gran vento. Un vento caldo di scirocco.
“La neve”-  pensò Charlie e si immaginò Eveline aggirarsi per la città, col suo andamento goffo, sprofondarci dentro.
“La neve e qui 19 gradi. Bah.”
Più il treno avanzava verso nord più nel bagno di quel vagone si sentiva un gran freddo.
Charlie non pensava a nulla. Non era solito dubitare delle sue scelte. Quando agiva pareva riversare tutto se stesso in quella unica azione e tutto il suo essere diveniva tutt’uno con l’istante. Quando dormiva dormiva e quando parlava parlava. Quando amava amava.
“Tu mi fai paura” gli ripeteva Eveline. Charlie si disperava al suono di quella frase. Lei non aveva mai cercato di spiegarsi meglio. Lui di capire.
“Avremmo potuto fissare tutto quel bianco, in silenzio, insieme”- aveva ripetuto sul terrazzo e dopo un istante, ficcato sigarette, un libro e il portafogli nella tasca della giacca si era diretto in stazione. Il treno stava per partire. I soldi per il biglietto non bastavano. Senza nessuna esitazione si infilò nel primo vagone e si rinchiuse in bagno. Non era solito dubitare delle sue scelte. Si fumò una sigaretta sbuffando da una fessura del finestrino rotto. Poi fece per aprire la porta quando vide il controllore sedersi sul sedile pieghevole tra i due vagoni.
“Cristo…proprio qui?!”
Si raccolse nella sua giacca troppo leggera per l’occasione e si accovacciò sotto il lavandino.
“Sarà lunga…”
Il treno pareva arrancasse nella notte, più assonnato dei passeggeri che gli dormivano in pancia.
Tutto intorno solo buio. Charlie pensava alla luce accecante di una città ricoperta dalla neve. Pensava al profilo di Eveline immerso in tutto quel bianco. Si addormentò, sfinito. Molte ore dopo, il saliscendi dei viaggiatori alla stazione di Piacenza lo svegliò. Era quasi l’alba ma ancora buoi tutto intorno. Si toccò la faccia sorpreso di averne ancora una. Tentò di alzarsi. Le gambe non lo ressero. I battiti del cuore sembravano rallentare.
“Se non esco da qui ci muoio” - pensò- “che brutta fine la morte nel cesso di un treno interregionale.”
Uscito dal bagno si rannicchio sul sedile in centro al vagone mezzo vuoto. Inviò un ultimo messaggio a Eveline: “sarò a Milano con il treno delle 07.45”.
Avrebbe visto la neve per la prima volta. Avrebbe visto una città tacere sotto il suo peso. Ed Eveline sarebbe stata al suo fianco. Avrebbe fatto esperienza della purezza. Fuori dal finestrino l’alba stentava a sconfiggere il buio e di nuovo si addormentò profondamente. Al capolinea si svegliò stordito.
Una volta fuori lo accolse il solito grigiore delle stazioni ferroviarie delle metropoli. Cemento, vapori, stridii delle rotaie in movimento. E odore di fast food. Camminò verso l’uscita inglobato dalla frenesia della folla. Tutto intorno neanche l’ombra della neve.
 In lontananza la vide, lì ferma in fondo al binario. Schiena ricurva, capelli arruffati, mani nelle tasche del cappotto più grande di due taglie. Negli occhi un luccichio strano che cadde sul labbro viola dal freddo. In quel luccichio scorse tutta la purezza della neve che non avrebbe mai visto, non quella volta, almeno.

sabato 2 novembre 2019

NOVEMBRE





Non era la lampada fuori posto. Forse. Eppure…no.
Luca era rientrato alle 23.30. In casa, i coinquilini avevano riunito gli amici per l’ennesima cena. Dopo qualche bicchiere si iniziava a sbrodolare chiacchiere senza senso per esorcizzare la paura del vedersi adulti.
-“Bella Luca, dai vieni a bere un bicchiere insieme a noi. C’è Davide che sta dando i numeri.”
In sala una nuvola di fumo smorzava il profilo del mobilio. Sulla poltrona le giacche creavano una montagna liquida. Ai piedi del divano il suo cappotto preferito giaceva per terra. La polvere controluce sulla credenza faceva pensare a sogni ammuffiti. Il catalogo di Ugo Mulas si trovava pericolosamente vicino alle bottiglie di vino rosso. Pensò alle mani lerce dell’amico che lo aveva maneggiato. Ebbe un fremito. Attraversò la sala, prese il catalogo e lo rimise al suo solito posto. Sospirò.
-“No ragazzi, io sono cotto. Me ne vado in camera mia.”
Quella notte aveva piovuto molto. Il giorno dopo si svegliò come chi, sul treno, trassale per paura di aver perso la fermata giusta. Allungò un braccio, oltre il letto il precipizio. Ci sono gesti che sono intraducibili in sensazioni, tanto meno in parole.
L’appartamento di via Cecati taceva. Non era un silenzio piacevole, sembrava un’apnea angosciosa. Luca rimase seduto sul letto per qualche minuto. Non cercava di ricordare, non pensava affatto. Riusciva a sentire Carlo russare nella sua stanza in fondo al corridoio. Poi si alzò di scatto. “Ho bisogno di una doccia”. Sotto la sedia il gambo di una rosa secca. Sul davanzale un paio di scarpette da donna accartocciate. Fuori in strada neanche un auto. Che strane le domeniche prefestive!
-“Questa casa sa di morte”- disse tra se e se attraversando il piccolo corridoio che portava in sala. Entrando trasalì: “ma che cazzo!!!”. Si grattò la nuca con nervosismo. Poi frenò ogni istinto. Sul divano, uno degli amici dormiva sbavando sul bavero del suo cappotto preferito. All’esclamazione di Luca si svegliò.
-“Giulio mi hai fatto prendere uno spavento.”
-“E pensa a me bello…ma che ore sono? Minchia devo andare da mia nonna su in montagna oggi per pranzo. Mi sa che me tocca alzarmi. Che c’hai una sigaretta?”
-“Credo di aver visto un pacchetto là sul tavolo. Lo vuoi il caffè, sto per farlo?”
-“Alla grande fra, ci sta proprio! Cazzo mi sento proprio incriccato.”
Luca sperava che il dialogo cessasse quanto prima ma Giulio, dopo un passaggio rumoroso in bagno, si sedette al tavolo della sala facendo l’elenco dettagliato del menu della nonna. C’è qualcosa di malsano nei logorroici mattutini. C’è qualcosa di molto losco.
Luca se ne stava appoggiato al frigo. Fuori la nebbia si stava diradando. La sirena di un’ambulanza ruppe la sua apnea interiore riportandolo alle melanzane fritte di Giulio. Sui pantaloni ancora le macchie di vino rosso.
-“Giulio devo proprio farmi una doccia ora. Ti saluto. Tu basta che tiri la porta quando esci ok.”
Sotto l’acqua bollente ripensò di nuovo alla lampada. Quella maledetta lampada fuori posto.
-“Perché non mi rispondi? Dimmi cosa significa? Non fare la bambina, Annie, non fare la bambina”- l’aveva supplicata la sera prima ma lei niente.
Annie aveva una bellissima chioma di capelli, sproporzionata alla testa. Mani ossute, corpo minuto tanto da sembrare che si sarebbe piegato su se stesso da un momento all’altro. Si potrebbe dire che disegnava cose, ma di questi tempi si usa dire illustrator. Il suo talento e la sua fama parevano inversamente proporzionate alla fiducia in se stessa.
Faceva un uso eccessivo dei social media, con intelligenza e ironia ma pur sempre eccessivo. Questo tradiva un certo bisogno di piacere; il suo Io sapeva cavalcare selvaggiamente la solitudine, il suo Sé se ne stava imbronciato in un angolo a piagnucolare.
Annie e Luca avevano una relazione malandata, come il ginocchio di lei. Passavano dalle corse sfrenate ai ritiri taciturni a leccarsi ferite, nella maggior parte delle volte, immaginarie.
Luca era un architetto. Da qualche anno aveva investito tutte le sue energie nel progetto del recupero di un piccolo teatro storico di provincia. Il piccolo teatro di provincia era sbocciato e ora richiedeva più attenzioni che mai.
“Più di me…ah non so io, sposatelo quel teatro”- aveva urlato Annie durante una lite di routine. Lui aveva cercato di prenderla per mano ma lei gli aveva dato un morso.
“Non voglio parlarne”- faceva lei, ogni volta che si ritornava sull’argomento.
Ma lui voleva parlarne, eccome. Il suo Sé sapeva cavalcare selvaggiamente la solitudine ma il suo Io era un cacciatore di logica, chiarimenti, risposte.
-“Non so vecchio, quella è un po’ una cazzo di pazza.”- si sentiva dire dagli amici.
-“Non so bella, quello è un po’ moscio, un egocentrico.”- si sentiva dire Annie.
-“Lo so ma non riesco a smettere.”- rispondevano loro all’unisono in due dimensioni sentimentali inconciliabili.
Era capitato, anche se molto raramente, che queste dimensioni si incrociassero. Un anno prima, era estate. Quel giorno due amici si sposavano. Luca svegliandosi aveva trovato Annie, in mutande e canottiera, seduta di fronte al frigo aperto. Beveva direttamente dalla bottiglia del latte.
-“La colazione è servita”- aveva detto lei indicando con la mano il posto vicino sul pavimento - “e dopo ho un folle progetto per la giornata. Chiacchiere sulle panchine dell’Esselunga al fresco e poi cinema all’aperto con annessa lotta contro le zanzare tipo Avengers.”
-“Oggi c’è il matrimonio. Anzi, devo scappare. Ho i vestiti a casa dei miei. Tu sai già cosa metterti?”
-“Ma…mmm.”
-“Cosa?”
-“Niente, tu vai, ci sentiamo più tardi.”
-“Ok”
-“Ok!”
Molte ore più tardi, quello stesso giorno, dopo svariati messaggi turbolenti e chiamate interrotte, Luca aveva perso la pazienza.
-“Quindi vieni o no?”- le aveva urlato al telefono. Non gli piaceva urlare ma tant’è…
-“Ma non lo so, cioè va be’, vai va, tranquillo.”- aveva detto lei, certa del fatto che si sarebbe vendicata psicologicamente nella prima occasione utile.
-“Ma cristo, Annie, cristo che risposta è vai?! Non è una risposta Annie, perché per una volta non cerchi di essere normale?”.
Per lei la lordura sentimentale fertilizzava l’amore. Per lui gli incastri del fato erano semplici calcoli matematici misurabili.
A quel matrimonio Luca ci era comunque andato, senza di lei. Standosene in disparte aveva avuto una certa visione. Mezz’ora dopo avrebbe bussato alla porta di Annie. Lei strillava sopra una base di karaoke di pessima qualità. Aprì la porta con una bottiglia di vino in mano. Non si poteva escludere che la vendetta psicologica fosse già in atto- ma, in tutta quella teatralità, Luca colse solo il lato buffo.
-“Beh che ci fai qui?”
-“Ero lì in un angolo e c’era questa lampada sul tavolo in giardino, sotto un bel porticato e mi sono detto che sarebbe stato molto bello osservare il tuo profilo sotto la luce di quella lampada.”
-“E quindi?”
-“Quindi sono qui, semplicemente.”
-“Beh entra allora, se vuoi.”
Avevano passato una serata spaventosamente perfetta. Senza fare l’amore. Era già passato un anno!
Ora, seduto al tavolo da pranzo dei genitori, continuava a ripensare alla sera prima. La teiera fischiava sopra il fuoco. I suoi dormicchiavano in sala. Le previsioni meteo non promettevano niente di buono.
Ultimamente era stato molto impegnato con l’organizzazione della nuova stagione teatrale. Lui e Annie si vedevano molto poco. Lei, però, sembrava più serena del solito, viaggiava come sempre per lavoro e pareva anche che si divertisse parecchio.
E’ strano come le tragedie spesso si consumino molto discretamente.
-“Hey ti va se mangiamo qualcosa fuori?”
-“Siediti Luca, per favore”.
-“Ok, che succede?”
-“Ho fatto una nuova copertina, sì per un nuovo libro, mi hanno commissionato una nuova copertina. Un libraccio per carità, di questo povero uomo complessato che si alimenta di autocommiserazione. Che insomma non sa stare solo e sa stare troppo bene con gli altri ma che poi con gli altri ci sta bene finché non deve perdere il controllo su tutto…”
-“Si ok, non raccontarmi tutto il libro, magari mi viene voglia di leggerlo.”
Lei nel frattempo era andata in cucina a prendere due calici e la bottiglia di vino.
-“Insomma per questa mi sono ispirata a te…”- disse allungandogli il libro.
Sulla copertina del libro un uomo solo se ne stava seduto a bordo piscina con un bicchiere d’acqua vicino. Era giorno. Su un tavolino basso posto stranamente al centro della copertina una lampada accesa ma non collegata a nulla.
-“Insomma uno stupido idiota depresso a bordo piscina che beve un bicchiere d’acqua, così mi vedi?”- avrebbe risposto Luca ironicamente.
-“Che palle…”
-“Ma cosa, che palle che cosa? Mi spieghi che c’è, Annie non sclerare per nulla. Che diavolo c’è?”
-“Questa copertina mi sembrava perfetta come regalo d’addio.”
-“D’addio?! Cristo dobbiamo ricominciare? Davvero? Si stava così bene…Annie perché? Mi mette a disagio tutta questa follia. Su non scherzare. E questa lampada? Che mi sta a significare?”
Lei beveva affacciata alla finestra. Luca riusciva a sentirla digrignare i denti.
-“Perché non mi rispondi? Dimmi cosa significa? Non fare la bambina, Annie, non fare la bambina”.
Lei aveva scaraventato il bicchiere di vino contro il frigo.
- “Adesso puoi anche andare.”- aveva detto senza aggiungere altro.
Il thè era pronto. La madre di Luca se ne stava versando una tazza. Quella sera avrebbe voluto ci fosse una partita di calcetto. Per lui la follia non digerita andava semplicemente sudata.
“Quella stupida lampada non ha senso”-  pensò - “è quella stupida donna che vuole farmi uscire matto.”

sabato 26 ottobre 2019

BOMBA ROSA




In treno c’era un gran silenzio. Il controllore sonnecchiava nel sedile vicino all’uscita. Dopo un autunno soffocante e un inverno che non accennava a dare segni di vita, finalmente dicembre aveva portato piogge abbondanti e gelate mattutine. Erano passati due mesi da quel giorno. Eveline non pensava a nulla. Di tanto in tanto controllava l’orario e poi si rimetteva a godersi la musica e le gocce di pioggia che sbattevano contro i finestrini. Finalmente, dopo tanti anni, tornava a viaggiare verso qualcosa e non contro.
Lei e Giorgio si erano trasferiti in un tranquillo quartiere di periferia da meno di un anno. La casetta era davvero deliziosa. Il prato perfettamente curato. Lo zerbino intonato alle ringhiere. Il mobilio vintage, maggiormente di seconda mano era magnificamente disposto per creare un ambiente accogliente. In casa loro c’era spesso un gran silenzio. Chissà cosa ne pensavano i vicini?
La casetta di fronte era la loro gemella indemoniata. Il prato quasi inesistente invaso da una discarica a cielo aperto. Poltrone, utensili arrugginiti, una piscinetta gonfiabile quasi sempre sgonfia e maleodorante per l’acqua stagnante. Alle finestre neanche una tenda e per il baccano che si sentiva giorno e notte si poteva pensare che non ci fossero neanche i vetri. In quella casetta abitavano Rosa e il Bomba- così chiamavano il marito di Rosa, nessuno conosceva il suo vero nome. C’erano poi Giulia, Patti e il piccolo Tommi, i loro tre figli. I coniugi Bomba Rosa erano poveri ma quella casa la signora l’aveva ereditata da una zia ricca e ne andava molto fiera. Il secondo giorno che erano lì, Eveline aveva incontrato Rosa nel vialetto, tutta vestita di nero. Andava di fretta e controllava chissà cosa dentro a un cesto di vimini. Scambiati i convenevoli Rosa le avrebbe detto:
 “Devo scappare amo’, sto andando all’obitorio, voglio fare le unghie alla mia zietta, non mi fido di quei truccatori di morte, la zia non si faceva toccare le unghie da nessuno tranne che da me!”
Quel dialogo aveva entusiasmato Eveline oltremodo. Quei vicini, che per i borghesi del quartiere erano un cancro da estirpare, erano per lei una salvezza. Quella stessa sera, durante la cena, aveva iniziato a raccontare la scena a Giorgio ma lui, come era solito, l’aveva zittita perché in TV c’era Blob. Finita la puntata le aveva chiesto “cosa dicevi cara?”, lei aveva risposto “niente di importante” e così si era andati oltre.
Il signor Bomba era un piccolo furfante che di professione faceva il camionista. Ogni volta che tornava a casa iniziava a strombettare da in fondo alla via urlando Rosa, Rosa mia. Rosa correva fuori in giardino. A volte con i bigodini in testa, a volte in mutande, a volte con una padella in mano. Il signor Bomba parcheggiava alla meglio e correva verso di lei, sempre con una rosa in mano. Era capitato 274 volte, Eveline le aveva contate. Le uniche due volte che non era tornato a casa, Rosa si era messa il vestito buono, aveva preso il borsello dei risparmi e si era rivolta all’avvocato per farlo uscire di galera. Insomma, i coniugi Bomba Rosa si amavano in un modo tutto loro ma a Eveline quell’amore piaceva.
Una volta era seduta in veranda con una bottiglia di vino. Ultimamente capitava spesso. Fissava il vuoto e beveva. Giorgio era tutto preso dalle sue ansie lavorative. Finito il lavoro arretrato si era rintanato in garage. Al rumore della basculante che sbatteva, Eveline aveva versato una lacrimuccia. Il signor Bomba nel frattempo strombazzava in lontananza. Una volta sceso dal camion, con la sua rosa in mano, si era diretto verso la moglie. Questa dalla finestra della cucina era da un bel pezzo che spiava Eveline.
“ Amo’, vai a darle la rosa, porella…”- aveva detto al marito. Questi, dopo un primo rifiuto aveva obbedito, come ogni innamorato.
“Signora la mia mogliera le manda questa rosa con i suoi omaggi”- aveva detto il Bomba a Eveline attraversando il cancelletto aperto.
Eveline era corsa in casa: “il Bomba mi ha regalato una rosa, ma che mer…”. Giorgio russava steso sul divano mentre la televisione gli illuminava il viso.
Giorgio era un giovane uomo pieno di invettiva. Faceva l’impiegato e nel tempo libero si dilettava con le sue invenzioni in garage. Non aveva avuto un’infanzia facile e neanche una solida formazione culturale ma si era fatto da sé, con grande dedizione e cocciutaggine ma con poca anima. Era ambizioso ma non cattivo. In fondo a se stesso sapeva di non avere nessun talento ma questo non lo aveva mai fermato dal farsi notare e lodare. Gli piaceva piacere- questo, nei primi anni della relazione, inteneriva Eveline. Da molto tempo la infastidiva.
La loro relazione era iniziata in uno di quei modi con cui puoi concludere un film strappamutande sull’amore, tutte scintille e passione. Con la nuova casa e il nuovo impiego, Giorgio aveva finito i fiammiferi, Eveline la pazienza per accendere un fuoco con legna bagnata.
Quella notte di ottobre il cielo era sereno, la luna piena e la temperatura ancora troppo mite per la stagione.  
“Questa volta si sarà davvero spaventato. Ci sarà gente fuori di casa, nel vialetto. E magari la polizia sì, magari anche la polizia. Chissà quante volte avrà chiamato, tremando al cellulare spento. Devo affrettare il passo, sì, forse sono stata troppo cattiva. Chissà quanto avrà pianto Giorgio, chissà quanto soffre adesso, ripensando a tutta la nostra vita insieme. Mortificato per i suoi errori. Ognuno ha bisogno di una seconda chance. Ci siamo, devo stare calma, abbracciarlo e tutto sarà finito.”
Girò l’angolo. Il gatto di Teresina attraversò la strada miagolando. I coniugi Bomba Rosa facevano un barbecue nel giardino sul retro. Lei indossava una gonna rosa, degli stivaletti bianchi e un giaccone di pelle nera. Lui la stringeva per i fianchi mentre girava le salsicce. Il piccolo Tommi piangeva mentre Patti e Giulia monopolizzavano i comandi di un piccolo drone. Beretti chiudeva le veneziane, bofonchiando in dialetto. Solo la loro casa taceva, un silenzio da apnea. Eveline credeva di soffocare. Chiuse il cancelletto dietro di sé e rimase immobile. Dalla finestra della sala solo le luci della televisione.
“Hey sei qui…vuoi che cucini qualcosa?”- chiese Giorgio.
“Non ti sei preoccupato che non ci fossi?”- rispese Eveline dopo un profondo respiro.
“Ho letto il bigliettino..ho pensato volessi startene un po’ per i fatti tuoi. C’è qualcosa che non va?! Ah domani ho una riunione, torno tardi…Io ho già mangiato, sai non sapendo quando rientravi.”
“E se non fossi rientrata?”- disse lei sotto voce.
“Cosa? Hai detto niente? Questi maledetti vicini...ma quanto baccano fanno alle undici di sera. Bomba…bah, Bomba…dove sei?”
“In bagno, voglio farmi una doccia.”
“Eh dimmelo però, cioè..ma che hai?”
“Niente Giorgio. Niente. Vedo che non ti sei preoccupato neanche un po’ della mia assenza.”
“Ma c’era il bigliettino! Oh inizi però…ma di cosa dovevo preoccuparmi? Se mi preoccupo sono soffocante, se non mi preoccupo sono una merda. Ti lascio il tuo spazio e sono un insensibile. Cos’è, è per caso per la cena? Te la preparo la maledetta cena.”
“E io, ci sarà la polizia…”- disse lei sotto la doccia, con una rassegnazione che solo un uomo saggio conosce.
“Polizia, ma che farfugli. Ma di cosa dovevo preoccuparmi poi, c’era il bigliettino..nemmeno fosse scoppiata la casa.”
Quella sera mangiò un piatto di pasta preparato con premura da Giorgio. Il bigliettino giaceva ancora sul tavolo: “non cercarmi!”.
Il giorno dopo raccolse i suoi risparmi dal barottolo di argilla sulla mensola della cucina. Nel giardino dei Bomba Rosa tre gatti si azzuffavano per il bottino trovato dentro il pattume dell’umido. Eveline suonò alla porta. Rosa si presentò con la sua vestaglia di cotone e i bigodini gialli in testa.
“We, amo’, vieni accomodati.”
“C’è tuo marito Rosa?”
“Sì sì, è di là con quelle pazze delle mie sorelle. Amo’ c’è la vicinaaaaaaa. Amo’, vieni. Molla quelle bagasce. Le sta aiutando con i vestiti di damigelle, sai cara, ci rifacciamo le promesse nuziali, ce credi?!”
“Siete molto teneri. Vi invidio.”
“Aho che c’è?”
“Bomba, avrei un favore da chiederti. Dovrei far abbattere il muro della sala. Tu  sei pratico di queste cose?”
“Signora cara, io sto a cucire i vestiti per due pazze scatenate di damigelle 40-enni. Ma che non so far abbattere un muro secondo te? Ma perché? Cioè è tutto regolare? Sai bella, io c’ho le mie rogne. Non ne voglio altre…..”
Eveline era scoppiata a piangere. Rosa aveva allertato tutta casa. Bevuta un po’ d’acqua tiepida portata dalla sorella damigella più svelta, in un bicchiere rosa, disse.
“No, non è tutto in regola. Scusa, va bene lo stesso…scusatemi. Siete molto belli. Ora vado, felicitazioni!”
Qualche giorno dopo, tornato da uno dei suoi viaggi con una rosa in mano, il Bomba l’aveva avvicinata nel vialetto.
“Bella mia, tutto in regola. Dimmi solo quando…che ci stanno a fare i vicini se no?!”
Erano già passati due mesi. Il treno procedeva lento. C’era un bel calduccio nel vagone e fuori era calata la notte. Chissà se Bomba aveva fatto un buon lavoro?

domenica 6 ottobre 2019

CANZONE SUI TETTI



Quando mischiavamo sudore e anima
era come decapitare silenzi secolari
"Scriviamo una favola", dicevi
e cantavamo a lungo sui tetti
- troppo svegli nel tardo pomeriggio-

La favola avrebbe terrorizzato i bambini;

ma noi non eravamo più bambini,
sapevamo mentire a noi stessi.
"Non c'è bisogno di spiegare", dicevo
mentre tardavamo a stiracchiarci sui tetti
il tramonto a Montmartre
si stendeva lento e profumato
-sui nostri sogni in ginocchio -
come una gonnellina a fiori
si posa sulla bocca
di un innamorato senza speranze.
L'istante che precede un addio fatale
è come un paradiso improvvisato
tollerato dagli dei,
rasenta i confini delle eternità.
Fuggite, fuggite, pareva gridare l'orizzonte
mentre i musicisti di strada
singhiozzavano
ed i maître nelle brasserie
non avevano tempo per noi.



sabato 5 ottobre 2019

I FIUMI NON SCORRONO A RITROSO







                                                                     "Ma la terra con la quale
                                  ti sei fatto di ghiaccio
                         non potrai più smettere di amarla"- Majakovskij

I vialetti del giardino erano sommersi da foglie- di che colore sono i vialetti? Rosso-rosso foglia! Di che colore è l'autunno del giardino? Buio-rosso foglia!
Passeggiava tenendo in mano una tazza da caffè americano con un goccio di coca e rhum rimasto sul fondo. Indugiava con le labbra sul bordo- come se quell'ultima goccia potesse urlarle la risposta-la risposta. In verità, pensò, lei non stava cercando nessuna risposta. Da settimane pensieri gelidi le abitavano le dita. Non era tempo per scrivere
in strada immaginava insegne di bar
piazze desolate
scarpe colorate
donna girovaga di via San Vittore con i suoi riccioli pazzi sporchi
bustine di zucchero-guinzagli- rosso stop
venditori di fiori
divorzisti con valigette di pelle
cuoricini di cioccolato-neve finta-e dentro quel giardino
 il silenzio. Macchia gelida sugli occhi del ricordo-eppure era stato tutto così vero una volta!
Colpì un mucchio di foglie e si fermò a guardare dentro la tazza; bollicine si formavano sul fondo e scoppiavano mute in superficie-moti dell'animo poetico.
Lui da qualche settimana si vestiva sempre elegantemente- ma d'un eleganza buffa come un neolaureato la prima settimana di lavoro nel caro ufficio-gabbia.
Si arrotolò le maniche della camicia. La piccola biblioteca del dormitorio era grigia e afosa. Guardò fuori dalla finestra. Era ancora ottobre. Era ancora lì- sempre mille pagine indietro rispetto agli altri. Quante foglie rosse- pensò-e lui ancora lì, mille foglie indietro rispetto a tutti gli altri- moti dell'animo poetico.
Poi la vide- oh, sapete come corrono i ragazzi selvaggi*?
Ed era tempo
autunno rosso-foglie selvagge
donna con cuoricini di cioccolato
venditori con valigette di pelle-divorzisti finti
riccioli desolati-piazze sporche
neve di zucchero
-bustine rosse- stop guinzagli- e giardini pazzi...mille moti d'animo che corrono selvaggi.
Era tempo per mordere le labbra lungo i vialetti senza colore, con il cuore rosso buio tremante foglia in gola. Ma lei aveva già conosciuto la sua terra di ghiaccio.
Infreddolita perché in maniche corte, bevette l'ultimo sorso di coca&rhum e si girò per andarsene- travolgendo lui, che con braccia incrociate sul petto le stava dietro da qualche secondo. Non si sorprese, non emise nessun suono. Lo guardò negli occhi. Avrebbe potuto allontanarsi come ogni altra volta, ma anche lui era in maniche corte. Presto avrebbe avuto una smorfia di sofferenza in viso-sempre mille giorni più tardi degli altri.
-"Ti ho sognato ieri notte. Eri entrato nella mia stanza. C'era molta confusione. Mentre la portinaia mi sgridava per l'ennesima volta, tu scivolasti dietro la porta del bagno e poi uscisti con due libri in mano. Stavi cercando di scappare ma io ti fermai. Ti trascinai per un braccio e ci sedemmo sul mio letto. Tu eri timido e io orgogliosa perché stavi per la prima volta vedendo la mia stanza. La mia stanza è il mio tempio, ne sono molto gelosa. Sul letto c'erano tanti libri e fogli e il taccuino, ma tu guardavi me e io la stanza-e la stanza noi. Ti dissi che non potevi rubarmi così i libri e tu rispondesti che ti vergognavi e io ti dissi che lo sapevo e che ti potevo aiutare. Tu dicesti  <lo so, lo so che puoi, ho letto sai le tue poesie, Marco me le ha sempre fatte leggere>. Non ho capito chi è questo Marco. Dopo io presi in mano i libri e ti dissi, <sì, ecco , La sonata a Kreutzer, ottimo, leggilo> ma tu timido dicesti che quello no, non te lo sentivi davvero di leggerlo. Mi baciasti sulla guancia e mi svegliai."
Sul viso di lui  una smorfia di sofferenza- sul viso di lei una nostalgia quieta. Ed ecco un altro sogno che aveva rubato un pezzo di realtà. Lui rubò un pezzo di realtà al sogno e le sfiorò la mano viola per il freddo.
Una sigaretta che brucia sul pavimento
la stanza dietro a una finestra chiusa
l'erba incolta di un giardino abbandonato
il caffè nero in un centro per senzatetto
i giardini di Kyoto in una cartolina
una canzone di J.Buckley sul treno in un lungo viaggio di notte.
-"Io non voglio davvero parlare di Sonata a Kreutzer. No, non m'importa davvero parlare di morte, tradimento coniugale e gelosia."
-"Coraggioso!"
-"Non credo..."
Si erano visti per la prima volta quattro anni prima. Lui aveva abbandonato la facoltà di legge per lettere. Lei teneva i libri di poesie sotto il banco nelle grandi aule universitarie. Non si erano mai scambiati una parola prima. A una festa, tempo addietro, lui si era nascosto dietro alla porta mentre lei sopra un tavolo lo imitava, scimmiottando ciò che aveva colto di lui- la folla divertita rideva - lui odiava ma non comprese mai cosa- dure lotte di selvaggi bambini. Lui non capì mai perché, lei non se ne curò.
Così scorrevano gli anni
entrambi cultori della filosofia dei vinti, ai due lati opposti della strada
Kerouac tra le mani scendendo dall'autobus, Kerouac tra le mani salendo sull'autobus
Cohen alle orecchie ai due lati opposti della metropolitana
prima e ultima fila alle letture di poesia
prima e ultima fila alle conferenze sulla cosmologia.
-"Avresti dovuto tirarmi per il braccio molto tempo prima, maledizione"- le disse. In un attimo gli fu chiaro, i fiumi non scorrono a ritroso. Rabbrividì.
-"Avresti dovuto peccare molto tempo prima."
-"Sto peccando?"
-"Nel mio sogno..ma su, niente tradimento coniugale, gelosia e morte. Non parliamone, lo hai detto tu, no?!"
-"No, parliamone invece. Cazzo, per la prima volta, parliamone! Contro chi sto peccando? Il fanciullo dalla chioma bionda che ieri sera all'Entropia ti baciava la testa?"
"Il ladro ha lasciata la Luna alla finestra. Lui è solo il ladro..."
"Allora chi è la Luna...chi?!"
Alzarono lo sguardo e qualcuno da una finestra del primo piano li stava spiando da dietro la tenda.
"Rientriamo"
Questi sono quegli incontri che hanno avuto luogo- molto tempo addietro- in altre dimensioni. Si palesano in gesti solo quando la realtà impara a imitare la perfezione dei moti dell'animo- ed è quasi sempre troppo tardi. Si sedettero al tavolo della biblioteca dove lui stava studiando.
"Un uomo una città*?"
"Non dirmi che lo stai leggendo anche tu..."
Lei sfogliò il libro aiutata dalle mani di lui.
          "Cantami una canzone che renda la morte sopportabile
            una canzone di un uomo e di una donna;
            l'enigma di un uomo e di una donna.
            Che lingua ci calmerà la sete,
            che venti ci solleveranno,
            che flutti ci porteranno oltre le sconfitte
            se non il canto, il canto immortale?"
Mentre i riccioli le cadevano sulla fronte, il vento spostava le foglie autunno rosso, il crepuscolo fischiettava lontano lontano, tra poco sarebbe scomparso in fondo al cielo. Il libro di William Carlos Williams giaceva sul suo letto mentre il vento intonava una canzone sulle labbra delle tende e batuffoli di polvere aprivano le danze in mezzo alla stanza.
L'uomo dall'uniforme verde gettava nel cestino i giornali
parole morte- da sotto i banchi delle aule universitarie
i riccioli della donna si addormentavano folli di dolore all'incrocio
cravatte colorate in colli da suicidio
bancone di pasticceria lucidato a puntino
orfanotrofi all'ora di cena
una chitarra scordata in mano a un girovago
 madri lucidate a puntino fuori dalle piscine ad attendere bambini con giubbotti firmati
l'ultimo pensiero di un filosofo arreso che brucia dentro la stufa di un appartamento spoglio.
Lui le rubò il libro di mano e si alzò volendo scappare. Lei lo tirò per un braccio. Lui la baciò sulla guancia- mille moti in ritardo- i gesti dei ragazzi selvaggi.
"Mi chiamo Andrea"
"Io Eveline"
"Lo so..."
Scomparirono ai lati opposti del lungo corridoio e forse si sarebbero ricordati l’uno dell’altra, un giorno lontano di un ottobre rosso foglia.